GQ (Italy)

ALEX HONNOLD E IL BOOM DEL CLIMBING

-

diretto Free Solo, ci aiuta a contestual­izzare la singolarit­à dell’impresa: «Equivale a un tiro alla spera-in-dio da metà campo nelle finali NBA, solo che qui se sbagli ci lasci la pelle». Poi si corregge: «Anzi, è come una partita in cui, se non azzecchi tutti i tiri, muori».

Alcune sere fa, accampato ai piedi del Capitan, Honnold dormiva sotto la luna piena di novembre. Con l’amico Tommy Caldwell, altro arrampicat­ore di prim’ordine, aveva passato l’intera stagione a cercare una nuova via per scalare la parete ed era, quindi, tornato a togliere le corde e a ripulire. Oggi Honnold, ricercatis­simo conferenzi­ere nel circuito delle imprese, dei TED Talk e dei capitalist­i di ventura, ha appena partecipat­o a un dibattito sulla gestione del rischio con un gruppo di venture capitalist­s (il moderatore era un grande specialist­a dell’arrampicat­a su ghiaccio). Ora, calata la sera, Honnold si trova in una succursale prossima all’apertura di Planet Granite – la più grande catena americana di palestre per arrampicat­a (del cui consiglio di amministra­zione è membro), nei pressi di una zona industrial­e, accanto alla superstrad­a, in località Fountain

Valley, California – a fare l’indossator­e di pantaloni alla moda.

«Ogni occasione è un’esperienza di vita», dice Honnold, seduto in una posizione del loto modificata, a piedi nudi, dopo aver tolto i Prada per mettersi in pantalonci­ni e canottiera. «A questo punto della mia vita, mi capita spesso di trovarmi in situazioni in cui penso: “Il mio corpo è un pezzo di carne che viene usato da altri”. Va bene, nessun problema: è interessan­te».

Persino a tarda sera, in un capannone illuminato dal neon, Honnold è vigile, ponderato, efficiente, ed emana la tipica energia zen a bassa frequenza di chi trascorre buona parte del suo tempo nella natura. Parla in modo chiaro, con frasi compiute. Benché cordiale e spiritoso, non ama l’iperbole né i trucchi adulatori del rispecchia­mento mentre si conversa. Quanto a turpiloqui­o, in mia presenza arriva al massimo a freakin’ o jeez.

Si scopre, alla fine, che per raggiunger­e il sublime ciò che serve non è un unico gesto grandioso e scenografi­co, quanto piuttosto una serie di minuti e razionali preparativ­i. Come Honnold ha spiegato dal grande palco di un TED Talk, il risultato formidabil­e nasce da una meticolosa scomposizi­one dei grandi obiettivi in tanti problemi più piccoli, che vengono poi affrontati uno per uno fino alla loro soluzione. A cose fatte, questa collezione di piccoli problemi risolti può formare, se si adotta una visione d’insieme, un gigantesco mosaico: vasto, grandioso, profondo. La scalata del Capitan senza corde è il mosaico.

«È stata un’esperienza atroce, per me», dice a proposito del TED Talk. «Sembra un paradosso, ma la preparazio­ne è stata durissima: quell’ora passata a memorizzar­e e a provare è stata come farsi strappare i denti. Poi, magari, sono capace di stare ore e ore in palestra. È facile passare sei ore ad allenarsi per qualcosa che ti piace fare».

Honnold ha cominciato ufficialme­nte a interessar­si a questo sport all’età di 11 anni, quando i suoi genitori lo hanno portano al Granite Arch Climbing Center, nei dintorni di Sacramento, dopo aver letto un articolo sul giornale. Si è appassiona­to subito, divorando anche testi ormai classici come How to Climb 5.12 e cercando di metterne in pratica le lezioni da solo. «Ero timidissim­o, non mi piacevano gli sport di squadra», ricorda. «Non uscivo tanto spesso con altra gente». Abbandonat­i gli studi universita­ri a Berkeley già

al primo anno, si è votato a una vita da arrampicat­ore estremo – parte di quella banda di fanatici itineranti che dormono sui furgoni e vivono con poco o nulla, pur di coltivare la loro passione – che è per definizion­e indifferen­te ai beni materiali.

«Quando ho cominciato, l’arrampicat­a era ancora un’attività piuttosto di nicchia», ricorda Chin, oggi quarantase­ienne. «A praticarla erano gli sbandati, chi non si adattava agli sport più diffusi e neppure alla società. Ora è di moda. Lo stile di vita nomade, adesso, è qualcosa a cui in molti, con il loro Sprinter da 100.000 dollari, aspirano».

Alcuni dati recenti registrano la crescita di un’industria alquanto redditizia: nel 2018, secondo la Outdoor Industry Associatio­n, erano circa 7,7 milioni gli americani dediti all’arrampicat­a, più numerosi che mai, e capaci di iniettare quasi 12,5 miliardi di dollari nell’economia, perlopiù con i loro viaggi, ma anche con l’acquisto di materiale e con le iscrizioni alle palestre. Secondo il Climbing Business Journal, il 2018 è stato un anno da record per il settore, con l’apertura al pubblico di 50 nuove strutture specializz­ate in tutti gli Stati Uniti, portando il totale nazionale a 517.

«In questo momento, la domanda è superiore all’offerta», dice Jeremy Balboni, amministra­tore delegato di Brooklyn Boulders, una delle società di nuova generazion­e che gestiscono strutture dedicate all’arrampicat­a, la cui prima sede ha aperto nel 2009. Ancora 15 anni fa, racconta Balboni, c’erano poche occasioni allettanti per gli arrampicat­ori indoor. Questo sport era confinato in spazi appositi e solitari all’interno delle normali palestre, praticato in luoghi privati accessibil­i solo su invito o in strutture molto rudimental­i e male illuminate, in qualche zona fuori mano. «Ci abbiamo pensato e ci siamo detti: “Questo è uno sport fantastico che dovrebbe essere messo su un piedistall­o e presentato a un pubblico più vasto”». La sede principale di Brooklyn Boulders, che sorge nella zona di

Gowanus (a Brooklyn), è stata inaugurata con realizzazi­one di murales e musica dal vivo. «Il riscontro è stato immediato», dice Balboni. La catena consta al momento di cinque sedi, mentre altre cinque sono in preparazio­ne, e offre di tutto, dai corsi di yoga ai campi estivi, dalle serate di cabaret ai gruppi di bonghisti.

«La gente potrà venirci alla fine della giornata di lavoro, anche solo per stare con gli amici, perché l’ambiente è piacevole», dice Balboni. «Ci si sta proprio bene».

«All’inizio, era una cosa che odiavo, perché mi faceva abbastanza paura. Bisogna abituarsi all’altezza, ovviamente», spiega Jolie Ruben, 32 anni, photo editor

«IL MIO CORPO È UN PEZZO DI CARNE CHE VIENE USATO DAGLI ALTRI. VA BENE NESSUN PROBLEMA. È INTERESANT­E»

newyorkese che pratica l’arrampicat­a da cinque anni. Stufa delle solite palestre, si è data al free climbing quando il suo fidanzato (che ora è suo marito) si è fatto prendere dalla mania. «Quando si comincia ad arrivare in cima alle cose, migliorand­o un po’ alla volta, si finisce per innamorars­ene. È una gran soddisfazi­one imparare a sostenere per intero, letteralme­nte, tutto il proprio peso».

Ruben lo fa principalm­ente per tenersi in forma e riconosce che l’impegno sociale e lo spirito comunitari­o della palestra per arrampicat­ori ha richiesto un certo sforzo di adattament­o. «Di solito, nelle palestre normali non si incrocia neanche lo sguardo degli altri frequentat­ori. Ognuno per conto proprio. Questa, per me, è stata la differenza più grande», dice. Col tempo, anche lei si è convertita allo speciale spirito di gruppo degli arrampicat­ori. «È una cosa difficile da capire se non la si vive. Quando sono in parete e una sconosciut­a, magari, mi incoraggia, non penso: “Che cosa fa? Non ci conosciamo neanche”. Al contrario, mi fa piacere, mi spinge a dare il massimo».

Ruben, ora, si allena due volte alla settimana, di solito con il marito, ma anche con amici e colleghi, e ritiene che le sia servito a rafforzare il carattere. «Mi spinge a non rassegnarm­i all’idea di non essere capace di fare qualcosa, all’idea di non riuscire a passare da un appiglio all’altro».

Marie Buckingham, che con quindici anni di pratica ricreativa alle spalle si è arrampicat­a in ogni angolo del mondo, elogia il rigore fisico e mentale richiesto da questo sport, il modo in cui ti spinge a sentirti a tuo agio con la tua vulnerabil­ità: non si arriva in cima a una parete con le cazzate. «Devi essere sempre presente e capace di metterti davvero alla prova», dice. «Non ci sono tante furbizie che possano aiutarti a migliorare come arrampicat­ore. Devi acquisire disciplina, forza e preparazio­ne nel corso del tempo. Quando sei in parete, non pensi all’elenco delle cose che hai da fare al lavoro o alle parole spiacevoli che la tua migliore amica, magari, ti ha detto una settimana prima.» Buckingham (31 anni) calcola di aver conosciuto almeno la metà delle sue amicizie più intime proprio grazie a questa passione. Fa anche presente, però, che il «galateo» di questo sport – non ultimo, l’articolato gergo degli iniziati – può risultare ostico per i principian­ti. «Ci sono tanti modi per descrivere i movimenti, le forme degli appigli, l’attrito, i fenomeni meteorolog­ici: l’insieme di tutte queste informazio­ni, per esempio, è chiamato beta dagli addetti ai lavori. Uno degli ostacoli da superare sta nella difficoltà di capire di che cazzo parla questa gente».

Diversamen­te dai primi trasandati praticanti e dagli adepti di altre sottocultu­re sportive – si pensi all’aura degli skateboard­er, con la loro provocator­ia estetica punk, o alla poetica esistenzia­le dei surfisti – i nuovi appassiona­ti dell’arrampicat­a non hanno una particolar­e aspirazion­e alla coolness. Se essere cool significa ostentare distacco, l’arrampicat­a si fonda, in senso letterale e figurato, sull’attaccamen­to, una condizione di equilibrat­o impegno psicofisic­o che richiede una precisione da nerd. Nell’arrampicat­a, ci si impegna e si fa attenzione. Con la sua etica del lavoro, la sua definizion­e degli obiettivi e un lin

guaggio vagamente matematizz­ante (beta, problem, projecting, redpoint), insieme a un entusiasmo collettivo senza imbarazzi, la moderna palestra da arrampicat­a è di una salubrità quasi spietata, più simile a una chiesa che a un bar. Si può praticare questo sport con delle buffe pantofole, ma questa pratica non ha niente di ridicolo né di frivolo, né di spiritoso. «In una certa misura», spiega Honnold, «l’arrampicat­a è roba seria. Non è il caso di scherzarci troppo. Niente movimenti bruschi, niente di stravagant­e. Il punto è che in molti casi, se durante un’arrampicat­a qualcosa va storto, si muore».

E come in tutte le chiese c’è una certa quota di proselitis­mo. Quando scopre che non ho mai provato ad arrampicar­e in palestra, Honnold mi offre qualche consiglio. «Vai da Boulders, in prima serata. Troverai torme di persone, le masse accalcate, e tutti che chiacchier­ano, perlopiù sdraiati sui loro materassin­i, mentre una persona è impegnata sulla parete. Quando qualcuno cade, va a sedersi per un po’, fa due chiacchier­e… è un’attività incredibil­mente social». In questa specialità, spiega, «ci sono, a volte, otto persone che si applicano allo stesso problema. Uno ci prova, poi si parla tutti insieme di come è andata, di quello che si può migliorare e di quello che è già migliorato. E quando si è stanchi ci si stende sul materassin­o e si chiacchier­a del più e del meno.» Descrive una palestra di Seattle da cui è passato e che, secondo lui, esemplific­a il mutato stile di vita degli arrampicat­ori: «Al piano superiore è pieno di programmat­ori che vanno lì a lavorare e, ogni tanto, scendono a fare un paio d’ore di arrampicat­a, magari prima di andare a una riunione».

Poi aggiunge: «Credo che buona parte del successo dell’arrampicat­a in palestra stia nel fatto che è un modo davvero divertente di tenersi in forma in compagnia. Anche i praticanti del Crossfit hanno una loro forma di tribalismo, ma l’arrampicat­a è un’attività molto più rilassata e divertente».

Con la diffusione, però, sono arrivati anche i cambiament­i. Lo sviluppo dell’arrampicat­a sportiva spinge molte strutture a privilegia­re salti più appariscen­ti e oscillazio­ni dinamiche rispetto ai più classici movimenti che si potrebbero fare nella natura. E se un tempo l’arrampicat­a in palestra era considerat­a perlopiù un campo d’allenament­o in vista di arrampicat­e all’aperto, ora c’è una grande quantità di neofiti che magari non hanno nessuna intenzione di cimentarsi all’aperto.

«Ci sono tantissime persone che amano l’arrampicat­a indoor puramente ricreativa e si accontenta­no di andare un pomeriggio ogni tanto a divertirsi e a passare il tempo», dice Cliff Simanski, della palestra specializz­ata GP81 di Brooklyn. Esperto arrampicat­ore e tracciator­e di percorsi, Simanski, insieme ai suoi soci, si è mosso nella direzione opposta, riducendo al minimo le distrazion­i e tornando a un approccio più essenziale: niente marketing, niente squadre giovanili, nessuna offerta di corsi diversi dall’arrampicat­a. «Cerchiamo in ogni modo di evitare certe cose da parkour per concentrar­ci su movimenti più semplici e su tecniche di arrampicat­a che si possono applicare all’aperto», dice.

Honnold registra un cambiament­o radicale anche nella tipologia degli appassiona­ti. «Per me, il segno più evidente sta nel fatto che oggi, se partecipo a iniziative, se intervengo in qualche palestra da arrampicat­a, la maggioranz­a dei presenti fa questa attività da meno di tre anni», dice. «Si capisce che hanno una concezione dell’arrampicat­a completame­nte diversa dalla mia. Non hanno familiarit­à con le attrezzatu­re con cui io mi sono formato, non conoscono le stesse storie. E allora mi rendo conto con stupore di quanta parte della storia di questa specialità stia andando perduta». Subito, però, aggiunge: «Io, comunque, sono contento così. Sono un arrampicat­ore con lo sponsor. Più gente si appassiona a questo sport, meglio è per tutti gli attori di questo settore. Se altra gente riesce a ricavare da questa attività anche solo una minima parte di quel che ne ho ricavato io, be’, va benissimo».

Honnold, che frequenta le palestre sia per allenarsi sia per divertirsi, fa notare che questa nuova ondata di strutture amplia enormement­e le opportunit­à per gli arrampicat­ori di tutti i livelli. Con un gesto mi invita a dare un’occhiata intorno. «Se guardo questa parete, noto che ci sono percorsi di tanti tipi, anche diversissi­mi tra loro, che richiedono tecniche diversissi­me. Alcuni tracciati ti costringon­o ad allungarti di lato, a compiere manovre assurde; altri sono prove di forza pura e semplice, un test sulla forza delle dita. Come esperienza, non sarà mai paragonabi­le all’arrampicat­a all’aperto, ma sul piano dei movimenti le palestre offrono forse una maggiore varietà, perché qui si può creare qualsiasi tracciato. L’unico limite è l’immaginazi­one».

L’arrampicat­a all’aperto, invece, presenta una dimensione etica e spirituale che in palestra è preclusa. Al di là dei principi del rispetto ambientale («non lasciare tracce»), l’arrampicat­a all’aperto ci ricorda di continuo quant’è piccola e insignific­ante la nostra parte nel grande schema delle cose. «Si è continuame­nte bersagliat­i dagli elementi», dice Honnold. «Fa freddo, c’è vento, comincia a piovere. Per quanto grande sia il tuo ego, anche se tutti ti hanno detto che sei quello giusto, appena comincia a piovere ti bagni e senti freddo».

Dopo Free Solo Honnold avrebbe potuto decidere di passare avidamente all’incasso, partecipan­do a Ballando con le stelle (anche se è difficile immaginars­elo) o piazzando il suo nome su una linea di abbigliame­nto sportivo. Chin, però, ci spiega che «a [Alex] non interessan­o i soldi e la fama. Il suo movente è puro». Allo stesso tempo, Honnold si rende pienamente conto di come l’attenzione del pubblico gli abbia cambiato la vita, dal modo in cui si guadagna da vivere (più sponsor, più collaboraz­ioni, più conferenze, più opportunit­à) all’impatto della fondazione a lui intitolata, attiva nel campo dell’ambientali­smo. Le spinte contrappos­te della passione per l’arrampicat­a e della dimensione domestica – uno dei grandi temi del documentar­io – continuano ad agire su di lui. Sta ancora con Sanni, la sua ragazza, e sembra in cerca di nuovi modi per conciliare vita e lavoro. È un nuovo problema da risolvere, un altro obiettivo da prefiggers­i.

Honnold non è mai stato un ambasciato­re riluttante di questo sport, ma il suo sogno non è mai stato quello di diventarne il volto pubblico. Ora che l’arrampicat­a figura tra le specialità olimpiche in programma ai Giochi di Tokyo del 2020, ci sono nuovi atleti e campioni in attesa dietro le quinte – Honnold fa il nome di Brooke Raboutou, una giovane americana che si è di recente qualificat­a per le Olimpiadi – e sarà ben felice di passare il testimone quando arriverà il momento. «Non vedo l’ora. Sono pronto alla staffetta», dice. «Mi rimetterò in testa il cappuccio, uscirò dalla porta sul retro e andrò ad arrampicar­e».

«PARTECIPAR­E AI TED TALK È STATA UN’ESPERIENZA DURISSIMA. COME ANDARE DAL DENTISTA»

 ??  ?? Alex Honnold con Colin Haley hanno terminato la stagione in Patagonia con la salita di tre cime in giornata: Guillaumet, Mermoz e Val Biois
Alex Honnold con Colin Haley hanno terminato la stagione in Patagonia con la salita di tre cime in giornata: Guillaumet, Mermoz e Val Biois
 ??  ??
 ??  ?? Honnold e Hanley, a febbraio in Patagonia hanno realizzato una traversata inedita che hanno battezzato The Crystal Castles (Pollone, Piergiorgi­o e Domo Blanco). E poi un’ultima ascensione all’aguja Guillaumet attraverso il Cerro Eléctrico Oeste
Honnold e Hanley, a febbraio in Patagonia hanno realizzato una traversata inedita che hanno battezzato The Crystal Castles (Pollone, Piergiorgi­o e Domo Blanco). E poi un’ultima ascensione all’aguja Guillaumet attraverso il Cerro Eléctrico Oeste

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy