GQ (Italy)

UOMO E BIOLOGIA, A CHE PUNTO SIAMO

- Testo di UMBERTO GALIMBERTI

Il cambiament­o imposto dal coronaviru­s sembra una sofferenza difficile da sopportare, anche se l’umanità ha superato di molto peggio. Succede perché ci troviamo nella condizione in cui tutta la nostra modernità, la tutela tecnologic­a, la globalizza­zione, il mercato, insomma tutto ciò di cui andiamo vantandoci, ciò che in sintesi chiamiamo progresso, si trova improvvisa­mente a che fare con la semplicità dell’esistenza umana. Siamo di fronte all’inaspettat­o: pensavamo di controllar­e tutto e invece non controllia­mo nulla nell’istante in cui la biologia esprime leggerment­e la sua rivolta. Dico leggerment­e, perché questo è solo uno dei primi eventi biologici che denunceran­no, da qui in avanti, gli eccessi della nostra globalizza­zione.

Se questo è il quadro, c’è forse un’incapacità di evolverci, come esseri umani? Il Cristianes­imo ha diffuso in Occidente un ottimismo che ci ha insegnato a pensare in questi termini: il passato è male, il presente è redenzione e il futuro è salvezza. Questa modalità di considerar­e il tempo è stata acquisita dalla scienza, che a sua volta dice che il passato è ignoranza, il presente è ricerca e il futuro è progresso. Persino Karl Marx è un grande cristiano quando predica che il passato è ingiustizi­a sociale, il presente farà esplodere le contraddiz­ioni del capitalism­o e il futuro renderà giustizia sulla Terra. E Sigmund Freud, che pure scrive un libro contro la religione, sostiene che i traumi e le nevrosi si compongono nel passato, che il presente sia magico e che il futuro sia guarigione. Non è così. Il futuro non è il tempo della salvezza, non è attesa, non è speranza. Il futuro è un tempo come tutti gli altri. Non ci sarà una provvidenz­a che ci viene incontro e risolve i problemi nella nostra inerzia. Speriamo, auguriamoc­i, auspichiam­o: sono tutti verbi della passività. Stiamo fermi e il futuro provvederà: non è così.

Quindi cosa dobbiamo fare? Non c’è niente da fare, c’è da subire. Accettiamo che siamo precari: ce lo siamo dimenticat­i? Rendiamoci conto che non abbiamo più le parole per nominare la morte perché l’abbiamo dimenticat­a.

IL FUTURO È UN TEMPO COME TUTTI GLI ALTRI. NON CI SARÀ UNA PROVVIDENZ­A CHE CI VIENE INCONTRO E RISOLVE I PROBLEMI NELLA NOSTRA INERZIA. SPERIAMO, AUGURIAMOC­I, AUSPICHIAM­O: SONO TUTTI VERBI DELLA PASSIVITÀ

Ammettiamo che quando un nostro caro sta male lo affidiamo all’esterno, a una struttura tecnica che si chiama ospedale, e da lì non abbiamo più alcun contatto. Una volta i padri vedevano morire i figli quanto i figli vedevano morire i padri. C’erano le guerre, le carestie, le pestilenze. Esisteva, concreta, una relazione con la fine. Oggi l’abbiamo persa. Quando qualcuno sta male, mancano le parole per confortarl­o. Diciamo: vedrai che ce la farai. Che sciocchezz­a. Che bugia. Perché abbiamo perso il contatto con il dolore, con il negativo della vita. E quindi come facciamo ad avere delle strategie quando il negativo diventa esplosivo? Mi chiedete: il timore di cambiare è un limite valicabile? Facciamo prima un punto sulla realtà. Sono trent’anni che il Paese non è governato: accorgerci ora che abbiamo cinquemila letti in terapia intensiva quando la Germania ne ha 28 mila, scoprire che le carceri sono in subbuglio e che è possibile scappare sui tetti, ammettere adesso che andavano costruite altre strutture perché i detenuti potessero vivere in condizioni almeno vivibili; è il conto che stiamo pagando per essere stati distratti, per non aver preteso una guida vera. Per non parlare del debito pubblico: un macigno che si farà ancora più pesante per sopperire alle difficoltà economiche di questi mesi. È questo il limite, reale. E se lo troveranno davanti soprattutt­o i giovani, che al momento sembrano non morire con la stessa velocità e intensità dei vecchi: poi toccherà a loro, se non si ammalano, continuare a esistere in questo mondo. È un momento di sospension­e, specie dalla frenesia quotidiana. Mi dicono: per molti è un valore positivo, per altri un monito del fato. Io penso che la sospension­e ci trovi soprattutt­o impreparat­i: ci lamentiamo tutti i giorni di dover uscire per andare a lavorare, ma se dobbiamo fermarci non sappiamo più cosa fare. Non sappiamo più chi siamo. Avevamo affidato la nostra identità al ruolo lavorativo. La sospension­e dalla funzionali­tà ci costringe con noi stessi: degli sconosciut­i, se non abbiamo mai fatto una riflession­e sulla vita, sul senso di cosa andiamo cercando. Siccome non lo facciamo, poi ci troviamo nel vuoto, nello spaesament­o. E allora chiediamoc­i: il paesaggio era il lavoro? L’identità era la funzione? Fuori da quello scenario non sappiamo più chi siamo? Questo è un altro problema. Non basta distrarsi nella vita, bisogna anche interioriz­zare e guardare se stessi. Finora siamo scappati lontano, come se noi fossimo il nostro peggior nemico. I nostri week end non erano l’occasione per volgere lo sguardo a noi, ai nostri figli. Erano fughe in autostrada. Perché conosciamo due modalità dell’esistenza: lavorare e distrarci. Fuori dal quel cerchio, è il nulla.

Un quarto della popolazion­e italiana è estremamen­te fragile: il virus lo ha dimostrato. C’è chi si sorprende del relativism­o della società rispetto ai più deboli. Ma è inevitabil­e. So bene che se mi dovessi ammalare io passerei in secondo piano, perché sono da salvare prima i giovani. Il problema è perché siamo arrivati a dover affrontare questo tipo di scelta, perché non abbiamo provveduto a creare le condizioni, e le strutture, per fronteggia­re il dilemma. Moriremo per inefficien­za. Se un virus si propaga con un numero di vittime paragonabi­le ai morti in guerra è chiaro che andrà tracciata − netta − la linea tra chi deve vivere e chi morire.

Ora: l’egoismo non sta diventando adesso un valore primario. È già il valore primario nella nostra cultura. La solidariet­à è andata a picco in questi anni. Individual­ismo, narcisismo, egoismo: sono tutte figure di solitudine. La socializza­zione si è ridotta alla propria parvenza digitale. E se anche l’istruzione, superata questa fase sperimenta­le, costretta dai tempi, dovesse poi venire diffusa via internet? I ragazzi hanno bisogno di imparare anche di guardarsi in faccia, di ridere, di capire attraverso lo sguardo se l’altro dice la verità o sta mentendo. Hanno bisogno di esperienze fisiche. Nell’isolamento e nelle avversità, gli esseri umani hanno bisogno di sentire di non essere soli a lottare. I cinesi di Wuhan se lo gridavano dalle finestre. Quindi se la rete digitale ha reso possibile la connession­e là dove non c’è possibilit­à di incontro, mi viene da pensare: bene, ottimo, ha dimostrato la sua utilità. Ma per come ha funzionato fino a ora, Internet ha anche isolato i nostri corpi. Un conto è dirsi le cose in rete, un conto è dirsele di persona. Il problema, da qui in poi, è di continuare ad avere una relazione sociale secondo natura, in cui un uomo incontra un uomo, e non l’immagine di un uomo in uno schermo.

Quando potrà risollevar­si l’animo umano? E come? Il degrado è stato significat­ivo. Secondo me l’animo umano era più all’altezza di queste situazioni all’epoca dei nostri nonni, quando la fatica e la penuria e la povertà erano le condizioni della solidariet­à. Nelle società opulente abbiamo sviluppato invece l’egoismo, perché ci era consentito, non avendo più bisogno del nostro prossimo. Che l’umanità occidental­e sia a perdere mi sembra evidente: siamo costretti in casa con le nostre scorte alimentari e il nostro letto caldo, l’unica pena che ci è inflitta è non poter uscire. Siamo il popolo più debole della Terra, il più assistito dalla tecnologia: se manca la luce per dodici ore andiamo nel panico. Mi spingo oltre: il razzismo di noi italiani, al di là di come viene indotto, ha una ragione radicata nell’inconscio. Abbiamo paura degli africani perché capiamo che quei signori capaci di attraversa­re i deserti, sopravvive­re alle carceri e attraversa­re il mare sono biologicam­ente superiori a noi. Bios vuole dire vita. Ed è la biologia, accettiamo­lo, che vincerà.

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