GABRIELE MUCCINO
Vent’anni fa aveva di fronte Martina Stella, e non l’ha certo dimenticata. Ma oggi GABRIELE MUCCINO si trova davanti a un’altra sfida: aggiornare, cinque anni dopo, i protagonisti di A casa tutti bene per una serie tv. E grazie a un cellulare...
Dopo tre anni dal film A casa tutti bene il regista ne fa un reboot per la sua prima serie
I cellulari, nei suoi film, fanno spesso una brutta fine. Maltrattati, percossi, scagliati a terra: i telefoni, nella filmografia di Gabriele Muccino, sono terminali elettivi di emozioni scomposte, sfogo d’ira o di passione, di rabbia o frustrazione. Non poteva dunque essere innocuo, il cellulare, neanche nel primo corto realizzato da Muccino proprio con uno smartphone, lo Xiaomi Mi 11 5G. Un piccolo film con una storia d’amore distopica alla Black Mirror, in cui due ragazzi, Marco e Giulia (Eduardo Valdarnini lui, Elisa Visari lei), si incrociano in metropolitana e si piacciono, ignari di soffrire della stessa malattia: la convinzione di vivere in un film (da qui il titolo, Living in a Movie). Solo che quella sensazione, forse, non è un’illusione ma la realtà. «Mi sono divertito a giocare con la quarta parete. I due protagonisti la rompono, accorgendosi di ciò che gli altri non possono vedere: le camere che li pedinano e chi li riprende», racconta il regista, 54 anni a maggio. Per Muccino, al cinema l’anno scorso con Gli anni più belli e al Festival di Roma con il corto Calabria, terra mia, il video per Xiaomi è stata un’occasione per sperimentare, prima di dedicarsi alla regia della sua prima serie tv, A casa tutti bene, reboot del suo film trasformato in un format da otto episodi per Sky, con cast rinnovato e riprese tra Roma e l’argentario. «I cellulari sono come la Nasa. Si sperimentano cose che sembrano impossibili, e che poco dopo sono parte della vita quotidiana».
Il futuro del cinema sono i film con il cellulare?
No. La ripresa con uno smartphone come quello che ho usato io, con standard di eccellenza, è una forma altissima di cinema amatoriale. È come mettere nelle mani di un filmmaker improvvisato una telecamera tecnologicamente professionale. Ma il cellulare mi piace perché è un mezzo democratico, con cui realizzare film e corti di qualità a costo ridottissimo. E tempi molto brevi.
Ultimamente gioca col corto: perché? Oggi, grazie ai social e alle piattaforme digitali, il corto sta diventando una forma interessante per raccontare storie o vendere prodotti. È divulgabile, condivisibile. Non ha mai goduto di tanta popolarità. E poi ho finito di girare il mio ultimo film un anno e mezzo fa. Volevo tornare appena possibile sul set.
Girare con un cellulare: cosa cambia? Nella grammatica nulla: il modo di raccontare una storia non cambia. Ma il mezzo è più agile, veloce e dinamico: è uno strumento che appartiene al futuro prossimo. Sembra un’altra epoca, ma era il 2007 quando abbiamo visto per la prima volta un iphone. Da allora ci siamo evoluti antropologicamente.
Che intende?
La specie umana si è trovata, per la prima volta, a filtrare la realtà attraverso il telefono. Oggi il nostro primo istinto, quando vediamo qualcosa di eccezionale, è filmarlo. E se non lo facciamo è come se quell’evento non fosse mai accaduto. È lo stesso approccio che hanno i reporter di guerra. Prima i nostri occhi erano la nostra esperienza. Oggi la nostra esperienza è il display.
Cosa resta del passato?
L’orizzontalità dello sguardo. Le storie saranno sempre orizzontali, come è orizzontale il palcoscenico, il nostro sguardo e la linea del cielo. Il linguaggio orizzontale è ancestrale. Resisterà anche a Instagram.
Rimpiange la pellicola?
Mai. All’inizio si diceva che il digitale impoverisse la pastosità dell’immagine. Ora direi che l’immagine digitale vede ciò che il nostro occhio non vede.
Per esempio?
Le notti. Le notti digitali sono piene di fascino. Nel buio il digitale amplifica la nostra percezione sensoriale.
E la bellezza? Il digitale sta cambiando il nostro rapporto con la bellezza?
Sta cambiando la nostra possibilità di manipolarla, di avvicinarci al canone. Non cambia l’idea di bellezza in sé: nemmeno gli avanguardisti sono riusciti a farlo. Il nostro gusto torna sempre al classico. Piuttosto, stiamo familiarizzando con la possibilità di alterare il nostro aspetto, e illuderci che siamo quello che non siamo.
Come?
Penso per esempio a tutto quello che ti permette di fare un’applicazione come Faceapp. È un software incredibile.
Ha giocato a invecchiarsi?
Sì, e poi l’ho acquistato per usarlo nella serie, per i flashback. Il software non costa praticamente nulla. Fino all’anno scorso ringiovanire un attore era carissimo. Ora posso far diventare trentenni i sessantenni con un click.
La bellezza è dei giovani?
Non è solo loro. Ma la bellezza giovane la inseguiamo ossessivamente perché è una bellezza che sfuma. E questo la rende preziosa. È la bellezza di Martina Stella in L’ultimo bacio: irresistibile perché destinata a mutare, volatile ed effimera, eppure reale. Pericolosa proprio perché non è un ideale: è vera.
Quanto conta la bellezza, quando sceglie un attore?
Più che la bellezza sono guidato dalla sensualità. Gli attori che scelgo, qualsiasi sia la loro età o il loro sesso, mi devono piacere. Devo provare piacere a stargli vicino, a scuoterli, ad abbracciarli o guidarli fisicamente nella direzione che voglio. La fisicità è un canale di comunicazione importante nella mia vita, anche quando scelgo un attore. Se non riesco a stargli vicino, non lo voglio.
Perché siamo ossessionati dalla bellezza?
È parte del nostro percorso esistenziale. Tutti vogliamo essere belli. Quando il brutto ci cir
conda, l’anima ci muore dentro. La bellezza ci fa stare bene.
In una sequenza di Living in a Movie si inquadra. Lei si piace?
Lasciamo perdere. Non riesco nemmeno a rivedermi.
Gli attori invecchiano. E le storie? Dipende. I Ristuccia (è il cognome che torna in A casa tutti bene, L’ultimo bacio e Ricordati di me, ndr) non invecchiano, perché sono l’archetipo universale della famiglia, immutabile nel tempo. Non credo esista luogo più sicuro e insieme insidioso delle famiglie, dove le persone possono compiere atrocità indicibili convinte di agire a fin di bene. Che effetto le fa tornare a raccontare i personaggi di A casa tutti bene?
Una grande emozione. Non ero pronto a dirgli addio: pensavo di averli lasciati andare, e invece posso esplorarli di nuovo, portandoli per la prima volta in tv.
La prima regia di una serie tv: cosa si prova?
Mi sembra di vivere un’esperienza dilatata: è come girare quattro film. Ma mi sento nel mio acquario. Sono come un pesce grande nell’oceano. Di tutti i luoghi che frequento, il set è il posto nel quale mi sento più sereno.
Si è chiesto perché?
Sul set so come iniziano e come finiscono le scene. Ho il controllo delle emozioni e della narrazione, di quello che deve accadere. Tutte cose che, ovviamente, non posso permettermi di fare nella vita vera.
Ha manie di controllo?
Lo diceva Federico Fellini, non lo dico io: il set ti avvicina a dio. Hai a che fare con delle anime che interagiscono fra loro simulando la vita. E se l’interazione ti riesce bene, chi la guarda pensa che la messa in scena sia la vita vera. Siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i film che abbiamo visto.
E dopo? Sta pensando ad altro? Certo, almeno a due o tre progetti insieme. Non sopporto di stare fermo. Mi terrorizza l’idea di cadere nel tunnel della stagnazione. Se fosse il protagonista di un film, come capita ai personaggi del suo corto, che film sarebbe?
Impetuoso. La storia di Muccino è, senza ombra di dubbio, un film impetuoso.