L’amaro in cui fa bene perdersi
Può la malinconia essere un motore per il godimento della vita? Sì, se usata bene. Ecco come
ERA PIÙ FACILE una volta, diciamo intorno al Medioevo. Chi soffriva di umore nero e pessimismo e, invece che arrabbiarsi, preferiva abbandonarsi allo sconforto davanti a un mondo che peggio di così non si poteva – chi insomma nasceva malinconico – poteva affermare, a propria discolpa, di essere sotto l’influsso di Saturno che, ai tempi, era il più lontano, il più freddo, il più oscuro dei pianeti. In quale altro modo spiegare infatti un’emozione ineffabile come la malinconia, forse la più snobbata e mal sopportata di questa nostra epoca così allergica alle sfumature?
Ci ha provato Alain de Botton, il cui Esercizi d’amore (scritto negli anni Novanta, molto prima di aprire la sua School of Life dove, novello Socrate di Central London, insegna a vivere «una vita più soddisfacente» a suon di moduli dai titoli «come fallire», «il significato della vita», «come essere socievole», «resilienza», «restare o andarsene») ha rivelato a una generazione che sì, è proprio così, che l’incanto svanisce proprio quando l’altro dimostra di ricambiare i nostri sentimenti. Nel suo ultimo libro, Varietà della malinconia, lo scrittore svizzero naturalizzato britannico si è cimentato nella declinazione di quello spleen che nei secoli ha perso la connotazione patologica per indicare uno stato di perenne scontentezza, distaccata superiorità e tristezza meditativa. La malinconia, ci dice innanzitutto, è segno di un’intelligenza superiore, e non è un caso che a esserne afflitti siano stati personaggi come Diderot, Baudelaire e certi filosofi che hanno illuminato di nero il Novecento. Il malinconico, che «non immagina, come fa invece l’ingenuo, di potere avere una vita perfetta», ha quindi una posizione ideale rispetto alla speranza perché è proprio «la consapevolezza di una fondamentale oscurità a dargli la forza di prestare una particolare attenzione ai momenti più luminosi». Nella Storia, insomma, il nemico dell’«allegrone» – che in realtà non è felice, ma presenta uno «specifico disagio per il quale la tristezza altrui risulta intollerabile in quanto minaccia di fare emergere aree di sofferenza che non ha mai processato» – è sempre riuscito a cavarsela meglio. Per esempio, imparando a stare da solo e, a tal riguardo, l’autore (che si annovera tra i «malati») lancia la curiosa idea dei «party malinconici»: niente felicità ostentata, solo individui vulnerabili e sinceri seduti a confessarsi quanto sia difficile tutto quanto. Ma non solo: il malinconico ha saputo anche farsi una ragione della propria introversione, della fissa per i paesaggi e a non vergognarsi di mostrarsi triste dopo il sesso abbandonandosi a un mix di «orgasmo e lacrime» che i più giovani definirebbero cringe e che magari è soltanto molto liberatorio.
Da poco, è venuta a mancare una delle attrici italiane più straordinarie di sempre, Monica Vitti, che con quegli occhi sublimi e bistrati ha interpretato magistralmente l’incomunicabilità tra gli umani, ma ci ha anche fatti sentire spensierati sculettando «ma ’ndo vai se la banana non ce l’hai?», che sembrano due cose opposte, ma non lo sono. È stata lei stessa che, all’impossibile domanda su quale fosse il segreto della sua comicità, ha risposto: «La ribellione di fronte all’angoscia, alla tristezza e alla malinconia della vita». Un’altra che di recente ha festeggiato i dieci anni del suo primo, malinconicissimo fin dal titolo, album Born To Die, è Lana Del Rey che, sdoganando la tristezza dell’estate, la fragilità di certi venerdì sera e il fatto che, a volte, l’amore proprio non basta, ha introdotto la malinconia nel pop – fino ad allora dominato dall’epica del divertimento –, resettandone i parametri emozionali e rimuovendo lo stigma verso quel particolare disagio mentale così tipico di questa prima fetta di secolo. Magari, quindi, essere malinconici può far bene ogni tanto. Per de Botton è soprattutto una questione di sguardi, un po’ meno antropocentrici e un po’ più cosmici. «L’unico modo in cui ci è dato di recuperare un minimo di senso è smettere di preoccuparci così tanto per noi stessi, identificandoci invece nella realtà planetaria fino a contemplare serenamente la nostra stessa mortalità»: se c’è una lezione che possiamo imparare dalla malinconia è proprio questa qui. Forse Saturno, allora, non aveva proprio tutti i torti.