DOPO LA SOLITUDINE
«Gli adolescenti, i nostri ragazzi, le nostre ragazze, i bambini, costretti dentro le stanze e le case, confinati davanti allo schermo di un computer, offrono l’immagine più penosa della solitudine. Non semplicemente pensando alla vitalità frustrata, alla vivacità motoria e mentale mortificata. Questo sarebbe il tempo loro per offrirsi allo scambio, per dare e prendere dall’altro in una fase in cui ogni passaggio è semplice dunque ricco, persino naturale».
La parola è “solitudine”. Imperante e imperativa, messi come siamo, reduci, giorno dopo giorno, da un isolamento variabile nella forma ma persistente. L'esperienza, solo quella, è comune, rinnovata e clamorosa, dibattuta usando altre parole, sinonimi, casistiche che non portano conforto alcuno. Ribadiscono piuttosto una condizione tanto condivisa quanto intima che ha radici lunghe, infilate in una quotidianità precedente a ogni pandemia, a ogni divieto, a ogni privazione.
Gli adolescenti, i nostri ragazzi, le nostre ragazze, i bambini, costretti dentro le stanze e le case, confinati davanti allo schermo di un computer, offrono l'immagine più penosa della solitudine. Non semplicemente pensando alla vitalità frustrata, alla vivacità motoria e mentale mortificata. Questo sarebbe il tempo loro per offrirsi allo scambio, per dare e prendere dall'altro in una fase in cui ogni passaggio è semplice dunque ricco, persino naturale. Persone sveglie, anime fresche, disposte a mettere in comune emozioni e stati d'animo, non ancora capaci di mascherare i sentimenti. Una attitudine tipica e propria di chi ha pochi anni, che il web come strumento del fare tende a contenere, a deviare in un altrove elettronico, a mediare raffreddando le temperature. Il fatto è che nella rete soltanto, proprio loro, hanno finito per rifugiarsi. In un ambito che favorisce la compagnia. Misurando peraltro quanto una conversazione “faccia a faccia” sia incomparabile rispetto a una chat, a una videochiamata. I gesti, le espressioni, le incertezze, qualunque segnale reperibile in un incontro autentico, diretto e perduto, generano rimpianti. E, forse, una speranza, una incerta consolazione. L'ipotesi cioè che dalla costrizione nella quale intere generazioni di giovani e giovanissimi sono piombati, scaturisca un desiderio formidabile di confronto non più (o molto meno) condizionato dal web. L'abitudine a dialogare a distanza come stimolo a fare diversamente, ad appropriarsi di un piacere e di una ricchezza reciproca, sgombrando il campo da ogni pigrizia, dalla scorciatoie offerte da strumenti abusati ma sterili.
I nostri figli, i nipoti, i ragazzi e le ragazze senza le aule, i corridoi vocianti delle scuole, le palestre, i campi sportivi, compongono un manifesto angoscioso. Sul quale pesano altre solitudini, le nostre, da adulti, presi in trappola da impedimenti simili, dalla negazione di convivialità preziose. Consapevoli, paradossalmente, di avere a che fare con resistenze pregresse, radicate. L'isolamento obbligato comporta fatiche e insofferenze ma non maschera del tutto una vocazione perduta. Qualcosa che ha dirottato molte, troppe conversazioni, su ciò che nel profondo non ci importa e riguarda. Di cosa parliamo, anzi, parlavamo? Di calcio, di gossip, di vezzi e vizzi che in una superficie stagnano. Luoghi comuni nei quali ritrovarsi facilmente con l'illusione di confrontarci, senza riuscire a trattare ciò che tra la pancia e il cuore sta, si agita, ci trasporta. Consegnandoci in una solitudine resa acuta da imbarazzi che minimizzano la condivisione. Necessità autentiche e mute, barattate con discorsi inconsistenti. Con la sensazione che non basti questo tempo da silenzio obbligato a recuperare una voce interiore che grida, chiede aiuto, simile a quella di altri. Soffocate tutte, al punto di non riuscire a udirle, a farle ascoltare.