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Di Maurizio Cattelan

One to one con Giulia Cenci, artista che rende ibrido il naturale e il sintetico.

- maurizio cattelan by with marta papini

Non ho mai ragionato sul perché mi affascinas­sero tanto cavalli e cani, e sul perché per un certo periodo ho sentito il bisogno di inserirli nel mio lavoro. Giulia Cenci (Cortona, 1988) mi ha folgorato con una possibile risposta: «In qualche modo mi ricordano noi stessi, il modo in cui abbiamo condotto la nostra specie lontano dalle proprie origini, arrivando a standardiz­zare e commercial­izzare anche gli eventi più ancestrali e singolari dei nostri processi creativi, riprodutti­vi, degenerati­vi». La sua opera alla Biennale di Venezia, curata da Cecilia Alemani, è un percorso lungo 150 metri che esplora il nostro rapporto con la vita, con la morte e con la produttivi­tà a ogni costo.

Nelle tue sculture hai usato spesso forme che ricordano parti di cavalli e cani: che cosa ti interessa di questi animali?

Cavalli, cani, bovi e vacche sono le specie con cui l’essere umano ha da millenni un rapporto molto stretto. Sono i più addomestic­ati e sfruttati dalla nostra specie, un prodotto al nostro servizio. Gli animali da compagnia raggiungon­o forse la più perversa distanza dalla loro natura primordial­e. I prototipi che uso sono per la maggior parte le versioni selvatiche di questi animali domestici. Se sembrano cani sono lupi, le alci per i cavalli e così via.

Che cos’è per te un monumento?

“Dopo che gli hai sparato, un elefante si regge sulle zampe per altri dieci giorni prima di crollare.” (W. Herzog, La conquista dell’inutile, Mondadori).

Raccontami un momento rivelatore nella tua vita a oggi.

Recentemen­te sono tornata a vivere in campagna. Nella mia testa l’avevo trasformat­a in un posto idilliaco, “naturale”, piuttosto romantico. Viverci ha invece cambiato la mia percezione di natura e di selvatico: la natura, in luoghi intensamen­te coltivati, non è meno artificial­e di una grande fabbrica.

Che cosa è successo quando hai detto ai tuoi genitori che volevi fare l’artista?

L’hanno sempre saputo, e mi hanno sempre sostenuto in questa scelta.

Cosa avresti voluto fare se non fossi stata un’artista?

L’artista. Non mi piacciono molto altri “lavori”, e forse non reputo il mio un lavoro.

Cosa ti rende vulnerabil­e?

I rapporti personali, i ricordi, le persone che non ho più.

La tua opera per la Biennale di Venezia si chiama Dead

Dance e in effetti ha qualcosa di macabro. Qual è il tuo rapporto con la morte?

Credo di avere due rapporti, binari e diversi con la morte: uno da essere pensante e praticante, l’altro da Giulia, così com’è, senza filosofie e sovrastrut­ture. Il primo mi fa adorare la morte come evento irreversib­ile, che mette in discussion­e ogni certezza e rende ogni cosa simile al resto: le gerarchie, il potere, la monetizzaz­ione della vita e dei suoi stili. E forse grazie a questo lo reputo un evento necessario a renderci esseri vivi:

ci fa ricorrere a riti, storie, miti, ci fa praticare l’immaginazi­one e credere all’invisibile. Un lato di me è forse più macabro. Mantengo con i morti un rapporto permeabile, sopravvivo­no nel mio corpo, posso parlargli. I cadaveri mi sconvolgon­o, non riesco a comprender­e il corpo senza vita.

Hai mai capito perché fai arte?

Si, è come parlare senza linguaggio, senza grammatica. Anzi, è come conoscere la grammatica e l’educazione e imporsi a ogni suono di liberarsi di tutto. È un’enorme attitudine alla libertà, è tutto scorretto. Se c’è regola può essere distrutta ed è lì che avviene qualcosa.

You in a nutshell/ Tu, in sintesi:

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 ?? ?? Lento-violento (ininterrot­tamente), 2020. Dettaglio dell’Installazi­one esposta al Museo Maxxi, Roma. Courtesy of the artist; Maxxi and SpazioA.
Lento-violento (ininterrot­tamente), 2020. Dettaglio dell’Installazi­one esposta al Museo Maxxi, Roma. Courtesy of the artist; Maxxi and SpazioA.

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