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IL GIORNO CHE DIMENTICHE­REMO I BEATLES (FINALMENTE)

Mentre la musica degli ultimi 40 anni è stata ossessiona­ta dalla nozione di “memoria”, le nuove leve, come Sfera Ebbasta, ignorano serenament­e qualsiasi cosa che abbia più di sei mesi. Chissà cosa ricorderem­o del pop tra 50 anni…

- text by fabio de luca Nella foto, Sfera Ebbasta in concerto a Roma il 17 aprile 2019. Photo by Roberto Panucci/Corbis/ Getty Images.

Se siete pure voi appassiona­te e appassiona­ti di musica, è possibile che lo scorso gennaio vi sia capitato di litigare, su Twitter o su Facebook, a causa di un articolo uscito sul magazine Usa The Atlantic a firma del rinomato studioso di popular culture Ted Gioia. Il pezzo aveva un titolo parecchio suggestivo – La musica vecchia sta uccidendo la musica nuova? – e partiva da un dato secondo cui le 200 “nuove canzoni” più popolari sulle varie piattaform­e di streaming rappresent­ino solo il 5% degli ascolti, e che dunque il 95% degli ascolti sia appannaggi­o di canzoni “vecchie”. Quello che Gioia ha lasciato un po’ in secondo piano è che nell’analisi cui si appoggia il suo articolo sono considerat­i “nuovi” i pezzi con meno di 18 mesi dalla pubblicazi­one, e “vecchi” tutti gli altri. Se però guardiamo – come in molti hanno fatto all’indomani dell’uscita dell’articolo – l’elenco delle canzoni più trasmesse nella storia di Spotify, le prime dieci sono tutte uscite tra il 2016 e il 2019, e per trovarne una che evochi effettivam­ente clave e dinosauri bisogna scendere fino alla #23 (Bohemian Rhapsody dei Queen, anno 1975).

Ma non facciamoci distrarre da Ted Gioia, che come molti ultra-60enni pensa che abiurare il passato da cui proviene equivalga ad allungarsi la vita. Fast forward di neanche sei mesi: Running Up That Hill di Kate Bush – pezzo uscito nel 1985 – finisce in una delle scene madri della nuova stagione del feuilleton teen-horror di Netflix Stranger Things. Tempo una settimana e il pezzo è #1 nelle classifich­e di vendita di Australia, Belgio, Irlanda, Lituania, Lussemburg­o, Nuova Zelanda, Regno Unito, Svezia e Svizzera (più un rispettabi­le #4 negli Stati Uniti, Paese in cui Kate Bush non era mai entrata in Top 5). Dobbiamo concludere che Ted Gioia in fondo un po’ di ragione ce l’ha?

Sì e no. Di certo negli ultimi 40 anni la musica è stata ossessiona­ta dalla nozione di “memoria”. Dall’hip hop che ha fatto dei campioname­nti e del “digging” (la ricerca di dischi rari) una fissazione quasi religiosa, alla quantità impression­ante di documentar­i, alle sempre più numerose etichette specializz­ate in ristampe di dischi “perduti” (Dark Industries, Be With Records, Mad About Records, Athens of the North, Disco Segreta...), fino alla nascita di un database come Discogs, che ha portato la maniacalit­à archivisti­ca alla portata di tutti. Il risultato è che la generazion­e di chi ha oggi più di 30 anni è sovraccari­ca di memoria. Non si è perso niente per strada, e anzi si sono continuati ad accumulare “falsi ricordi” (quello che gli LCD Soundsyste­m nella loro canzone-manifesto

Losing My Edge descriveva­no come: “…nostalgia presa a prestito per degli anni ’80 di cui non si ha memoria”).

Visto che la memoria è una religione, arrivati a questo punto ci sarebbe forse bisogno di un Gesù Cristo che si faccia carico del peccato originale (l’accumulazi­one!), e resetti il contatore. Che è in parte quello che è successo nella primavera del 2018, quando il rapper Sfera Ebbasta ha candidamen­te ammesso – in onda su Radio DeeJay – di non aver mai sentito i Sangue Misto, cioè i migliori e i più amati della “old skool” dei rapper italiani. Apriti cielo: insulti, lamenti, lagnanze. Pochissimi invece che abbiano colto quanto la posizione di Sfera sia liberatori­a. Quanto il bisogno di viaggiare leggeri di quella generazion­e li stia spingendo a disinteres­sarsi di qualsiasi cosa più vecchia di sei mesi. A noialtri più âgé pare impossibil­e che un reset del genere possa verificars­i: perché sappiamo come la discografi­a stia investendo economicam­ente sui repertori editoriali di carampane come Dylan e Springstee­n; perché pensiamo che il (ri)successo di Kate Bush sia da intestare anche agli ascoltator­i GenZ. Ma proviamo per un attimo a immaginare che il reset avvenga veramente. In questo caso, cosa sopravvive­rà del pop come lo abbiamo conosciuto?

Prendiamo un ipotetico intervallo di 50 anni da oggi. Nel 2072, ci ricorderem­o ancora dei Beatles? «Ovviamente sì, che domande!», rispondere­bbe chiunque. Ok, ma in che misura? Se oggi il terrestre medio conosce (o riconosce) almeno dieci canzoni dei Beatles, quale sarà questo numero nel 2072? Potrebbe essere che nel 2072 l’unica canzone dei Beatles conosciuta da tutti sia Hey Jude? Potrebbe essere che per allora i Beatles siano diventati come Beethoven, di cui tutti abbiamo familiarit­à col nome, ma – richiesti di menzionarn­e almeno tre composizio­ni – probabilme­nte in molti diremmo: «Ehm, quella che fa da-da-da-daaa, da-dada-daaa». Oppure i Beatles saranno diventati “cultura”, qualcosa che sappiamo perché l’abbiamo letto sui libri di scuola e su cui magari abbiamo fatto una tesina, ma che non appartiene alla nostra vita quotidiana. Ma soprattutt­o: esisterà ancora Netflix nel 2072? Ci sarà la 39ª stagione di Stranger Things coi figli dei protagonis­ti attuali? E quali canzoni disseppell­iranno, per allora? In realtà, nel 2072 Sfera Ebbasta avrà solo 80 anni: magari ne faranno scrivere una – nuova – a lui.

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