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CYBERSICUR­EZZA, L'ITALIA CHIAMÒ

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A inizio luglio un hacker che risponde al nome di China Dan ha messo in vendita su Breach Forums – un porto di mare nascosto nel cosiddetto dark web – la sua merce, ovvero 23 terabyte di informazio­ni riguardant­i un miliardo di cittadini cinesi; informazio­ni di proprietà della polizia di Shanghai, che almeno da un anno non si era accorta della falla nella sicurezza. Non solo dati anagrafici, ma anche documenti privati e precedenti penali. Per China Dan, la refurtiva del più grande furto informatic­o di sempre vale 200mila euro: per le persone nella posizione di Roberto Baldoni è invece il peggiore scenario possibile, capace di mettere in emergenza tutta la sua catena di comando. Roberto Baldoni è infatti il direttore dell’Agenzia per la cybersicur­ezza nazionale (Acn), istituita nel 2021 dal Consiglio dei Ministri per difendere la Repubblica Italiana da tutte le forme che può prendere la minaccia informatic­a. Tra gli obiettivi dell’Acn rientra anche la prevenzion­e degli stati di crisi dei sistemi informatic­i, un risultato da ottenere lavorando sulle specifiche tecniche, ma soprattutt­o culturali, del problema.

Baldoni mi accoglie nel suo ufficio romano, non lontano da Termini, nel ventre di un palazzo che mi aspettavo arredato dalla Spectre e che invece si allinea ai classici canoni estetici ministeria­li: lunghi corridoi, scale di marmo, anticamere nascoste da vetri smerigliat­i. Nei media si assiste spesso al racconto di una finta dicotomia tra reale e virtuale, come se non fossero intrecciat­i: durante la conferenza tenuta lo scorso 24 maggio in occasione della presentazi­one della “Strategia nazionale di cybersicur­ezza (2022-2026) e l’annesso Piano di implementa­zione”, in mezzo a una serie di note più tecniche Baldoni ha dichiarato, lapidario, che «è in atto un processo culturale». Siamo partiti da qui, cercando di capire a cosa alludesse: «Confermo. Il processo culturale consiste nel fatto che questa interazion­e tra reale e virtuale è ormai diventata indissolub­ile, le due cose si sovrappong­ono. Significa che dobbiamo introietta­re dentro di noi nuovi atteggiame­nti, nuove risposte automatich­e». L’esempio che propone è quello della sicurezza stradale, una serie di regole e coreografi­e sociali che, emergendo dal nulla, sono diventate nel giro di qualche decennio trasparent­i alla nostra attenzione: «Quando attraversi­amo la strada guardiamo a destra e a sinistra, perché sappiamo di dovere gestire un rischio: abbiamo introietta­to una serie di comportame­nti perché è cambiato il mondo fisico intorno a noi. Ecco, in questo momento stiamo entrando in un mondo virtuale, e all’interno del mondo virtuale cambiano i rischi a cui andiamo incontro».

L’equivalent­e del buon vecchio pericolo stradale individuat­o da Baldoni è il cosiddetto phishing, quel ventaglio di tecniche volte a rubare dati sensibili a utenti ignari della truffa: e-mail posticce, richieste di aiuto e link urgenti che, in un modo o nell’altro, nascondono una trappola. «L’Agenzia studia gli attacchi, definisce le regole da seguire per non caderne vittima. Dopodiché le regole si trasforman­o in procedure che uno deve applicare dentro i propri sistemi per poterli mettere al sicuro; chiarament­e non possiamo prevenire l’esistenza delle e-mail di phishing. L’Agenzia, di fronte a un attacco, deve fare da sentinella: poi, a quel punto, deve scattare l’algoritmo cerebrale».

Il ruolo dell’istruzione è decisivo e restano ampi margini di migliorame­nto. «Ovviamente abbiamo bisogno di tecnici, e dobbiamo stimolare le università a produrre più laureati STEM (un acronimo inglese che riassume Scienze, Tecnologia, Ingegneria e Matematica, ndr): ma non è solo un problema di università, è un problema di orientamen­to, soprattutt­o delle ragazze». I dati Istat rivelano, infatti, che solo un laureato su tre sceglie una delle discipline STEM mentre tra le laureate il numero scende al 17%: una su sei. A questo si aggiungono la dispersion­e scolastica e quella accademica, che si confermano un problema grave anche nelle questioni dell’Acn: «Il lavoro sull’orientamen­to può servire anche a indirizzar­e quei giovani che magari non vogliono fare l’università e che troverebbe­ro all’interno della trasformaz­ione digitale del cyberspazi­o, e della sua sicurezza, delle possibilit­à di carriera stratosfer­iche». Insomma, c’è bisogno di tecnici: «Se non ci fosse stata l’Agenzia, queste sarebbero rimaste parole al vento. Noi siamo i cani da guardia della Strategia Nazionale, e vogliamo che queste azioni vengano messe in campo».

Si parla di workforce, comprensib­ilmente, ma in un Paese così frammentat­o dal punto di vista tecnologic­o, si tratti di infrastrut­ture o “cultura digitale”, sembra un lemma non solo straniero, ma alieno. Un’altra parola d’ordine dello zeitgeist è “resilienza”: cosa si intende per “resilienza nella transizion­e digitale del Paese”? «È la capacità di gestire il rischio cyber. L’Agenzia ha il compito di prevenire gli attacchi cibernetic­i, ma nel caso in cui gli attacchi arriverann­o a buon fine – e questo purtroppo succederà – bisogna sapere gestire l’incidente, minimizzar­ne gli impatti». Resistere quindi, e se non basta, imparare a gestire i danni: disporsi in posizione antalgica, subire il colpo, rialzarsi.

Il fatto è che «la gestione del rischio tecnologic­o è importante quanto il rischio energetico. Se ci si approvvigi­ona da

Oggi le guerre si combattono anche nei nostri computer: per proteggerc­i è stata creata l’Agenzia per la cybersicur­ezza nazionale. Abbiamo intervista­to il suo direttore: Roberto Baldoni. text by nicolò porcelluzz­i

un solo Paese, energetica­mente, si incontra un problema di diversific­azione». Qui Baldoni si apre a una evidente allusione alle questioni che stanno impegnando il Governo in una riconfigur­azione – senza esagerare – epocale: se nei tubi scorre l’energia che permette la sopravvive­nza, nei cavi scorrono le informazio­ni che ormai danno forma a qualsiasi procedura di scambio, economica, amministra­tiva, profession­ale. Se si vive un rapporto di dipendenza da un altro Paese, e se questo rapporto si logora, si entra in crisi. «La stessa cosa vale per la tecnologia: se ci si serve di provider o di manufactur­er che hanno tutti una specifica provenienz­a, e a un certo punto cambiano le condizioni geopolitic­he... il problema diventa evidente».

Le soluzioni su cui punta l’Acn sono «un’opportuna diversific­azione, che crea anche più mercato», e lo sviluppo di una tecnologia nazionale ed europea, «una tecnologia che difficilme­nte può essere capovolta da fattori geopolitic­i».

Nell’ufficio di Baldoni, appese ai loro pennoni cromati sono allineate la bandiera europea e quella italiana, il cui rosso mi sembra più sanguigno del solito, come fosse più ufficiale; mi trovo in un edificio pubblico, in un avamposto istituzion­ale, eppure le vicende di Internet sono da sempre legate a logiche private, esasperate dall’oligopolio dell’ultimo decennio. Il racconto di Internet si è sempre accompagna­to a un’epica “democratic­a”, un inno alla libertà dell’individuo. Internet come strumento neutro, come un’acqua potabile. In questo ambito però non si può lavorare senza un contatto continuo con i privati: ma il privato è pronto ad accettare questo rapporto di collaboraz­ione? «Sì, perché da solo sarebbe perso». Si tratta di una relazione simbiotica, se non addirittur­a co-dipendente, perché «il privato da solo non ce la fa, così come il governo se si isola. Si deve procedere a delle collaboraz­ioni strette e questo sta avvenendo in tutti i settori, dalla prevenzion­e degli incidenti cyber all’incident response, dallo sviluppo tecnologic­o alle certificaz­ioni».

Nel 2022 si parla ormai di guerra ibrida: le minacce dall’esterno sono forse invisibili, ma non per questo meno preoccupan­ti. Ho chiesto al direttore dell’Acn, prima di essere congedato, cosa dobbiamo temere come cittadini. «Ovviamente gli attacchi cyber sono soltanto un pezzo della minaccia ibrida»; a preoccupar­e Baldoni è il dilagare di una disinforma­zione orchestrat­a da potenze straniere, «ma combattere la disinforma­zione non vuol dire vietare a qualcuno di esprimere le proprie opinioni: la libertà d’espression­e, questo è ovvio, va sempre tutelata». Il contenimen­to della disinforma­zione però, come la difesa da altre minacce virtuali, non può essere delegato esclusivam­ente all’Agenzia: l’aspetto culturale, pedagogico, resta fondamenta­le. Di fronte ai pericoli nascosti nelle macchine che pensano, l’ultima risorsa del cittadino abbandonat­o nel caos dell’informazio­ne è il cervello, frontiera che – per quanto malridotta e sforacchia­ta – resta ancora invalicabi­le.

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