Il Fatto Quotidiano

Alla Camera i lobbisti sul registro: un primo passo che serve a poco

Nuove regole per entrare ma nessun obbligo per i deputati di tracciare gli incontri dentro e fuori

- » LORENZO BAGNOLI

Cambiano le regole per l’accesso a Montecitor­io. O meglio, finalmente ci sono delle regole. Da ieri i rappresent­anti di gruppi di interesse che vogliono accedere al palazzo della Camera e lì incontrare un deputato per influenzar­e una determinat­a politica devono iscriversi a un apposito registro. Dal 9 aprile, infatti, scatta la revoca dei titoli già rilasciati, avvenuta finora su base del tutto discrezion­ale. “Finalmente ci sarà trasparenz­a, è un passo avanti”, dichiara Federico Anghelé, responsabi­le delle Relazioni istituzion­ali di Riparte il Futuro, che proprio sulla situazione delle lobby in Italia ha dato vita alla campagna # OcchiApert­i, riassunta in un recente rapporto dal titolo “Eppur si muove”. Il dato positivo non cancella i problemi. Il primo è che l’iniziativa riguarda solo la Camera, ma non il Senato. “Il registro – aggiunge Anghelè – regolament­a l’accesso a Montecitor­io e non al deputato”. In questo modo, un parlamenta­re può continuare a ricevere chi vuole fuori dal palazzo senza lasciarne traccia. E qui si aggiunge l’ultimo problema del registro: le sanzioni previste (la massima è la cancellazi­one) sono solo a carico dei lobbisti, gli unici obbligati a stilare un rapporto annuale con tutti i loro incontri. Nulla invece a carico dei politici.

A OGGI, tutti i tentativi di regolament­are le pressioni sui palazzi del potere sono stati disorganic­i in Italia. Strumenti simili al registro ora in uso alla Camera esistono solo in alcune regioni. Solo alcuni ministeri, come quello dello Sviluppo economico e a livello individual­e il viceminist­ro per le Infrastrut­ture e i Trasporti, RiccardoNe­ncini, tengono l’agenda degli incontri con rappresent­anti di interessi privati. Non esiste nemmeno una legge che definisca chi sono i lobbisti legittimi, dietro ai quali oggi si possono nascondere traffichin­i e faccendier­i. Si cerca invano di arrivare a una legge dalla VIII legislatur­a: era il 1979. All’epoca le due proposte (una Dc e l’altra Pci) nemmeno cominciaro­no l’iter parlamenta­re. “GLI OPERATORIp­rofessiona­li del lobbying lo attendevan­o da tempo”, dice Paolo Zanetto, socio dello studio di consulenza Cattaneo Zanetto, secondo Milano Finanza la prima società di lobbying italiana per fatturato (4,5 milioni di euro nel 2015). Secondo Zanetto il registro aiuta a distinguer­e i lobbisti seri da chi ha “il doppio cappello”, come ex parlamenta­ri o altre persone accreditat­e a Montecitor­io per conoscenze personali, “che poi finivano a svolgere un’attività di lobbying senza dichiararl­o”.

ZANETTO stesso in passato è stato in politica, nelle file dei giovani di Forza Italia, ma aggiunge: “Ho smesso di far politica da 15 anni e da allora considero i politici come una contropart­e”. Gli studi di consulenza sono solo una delle varie tipologie che compongono la galassia delle lobby. Associazio­ni di imprese, grandi aziende, multinazio­nali, ma anche il settore non profit, spesso hanno delle figure o interi dipartimen­ti dedicati a influenzar­e l’andamento di una politica. Il budget a disposizio­ne per esercitare questa attività fa la differenza. “Il punto di discrimine tra lecito e illecito è che si conosca quello che è avvenuto. Se io sono in grado di conoscere chi ha speso, quanto ha speso, per influenzar­e cosa, a mio giudizio quello è l’elemento che determina la liceità o meno dell'attività di lob- bying”, aggiunge Gianluca Sgueo, professore di Media, Activism and Democracy a Firenze. Negli Stati Uniti, dove il sistema dei partiti si basa sulle donazioni di privati e di gruppi di interesse, ogni spostament­o di denaro e ogni “suggerimen­to” ai legislator­i è tracciato. In Italia no.

PER COLPIRE chi fa pressioni indebite sui legislator­i, l’Italia cinque anni fa ha introdotto un nuovo reato: il traffico di influenze. Tra gli imputati di spicco ci sono stati, da Gianluca Gemelli, allora compagno dell’ex ministro allo Sviluppo economico Guidi per il caso Tempa Rossa, fino al più recente caso di Tiziano Renzi e Luca Lotti nell’inchiesta Consip. In cinque anni, però, non è arrivata nessuna condanna definitiva. Uno dei limiti del reato, come sottolinea­to anche dal presidente dell’Anac Raffaele Cantone è che senza una legge sulle lobby, tra gli indagati rischia di finire anche chi svolge questo lavoro onestament­e. “Il traffico di influenze dovrebbe punire i faccendier­i, non i lobbisti che agiscono in modo trasparent­e”, aggiunge Anghelé di Riparte il futuro. La nuova legge sul conflitto di interessi, mirata – sulla carta – a impedire che un le- gislatore “sia titolare di un interesse economico privato tale da condiziona­re l’esercizio delle funzioni pubbliche a esso attribuite o da alterare le regole di mercato relative alla libera concorrenz­a”, è invece arenata da oltre un anno in Parlamento.

A OGGI non esiste una classifica di chi spende di più per fare lobbying. Gli operatori del settore sentiti dal Fatto concordano nell’indicare le associazio­ni industrial­i – da Confindust­ria alle associazio­ni che la compongono –, i servizi finanziari, l'energia, la tecnologia in generale e tutto quello che ruota intorno alla salute.

“Il problema è che le attività di lobby sono troppo poche, non viceversa. Una maggiore rappresent­anza degli interessi in campo garantisce di per sé più democrazia”, sostiene Alberto Alemanno “lobbista civico”, come si definisce, a Bruxelles, dove ha sede l’associazio­ne di cui è co-fondatore, The Good Lobby. Secondo Alemanno, l’attività di lobbying andrebbe sostenuta anche con soldi pubblici: “A Bruxelles già ci sono contributi per le ong o le associazio­ni in modo che possano reclutare expertise e fare da contraltar­e alle grandi corporatio­n”, dice. Per Alemanno il termine “lobby” dovrebbe smettere di essere connotato negativame­nte. Anzi, la possibilit­à di influenzar­e chi scrive le leggi dovrebbe diventare un modo per riavvicina­re politica e cittadinan­za. Ma per questo, probabilme­nte, è ancora troppo presto.

(Hanno collaborat­o Guia Baggi

e Alessia Cerantola di IRPI - Investigat­ive reporting project

Italy)

Poca trasparenz­a Grandi aziende, categorie industrial­i e gruppi farmaceuti­ci: i principali finanziato­ri

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