Fughe di notizie e sentenze mediatiche
C’è un aspetto mediatico, nelle roventi polemiche sul “caso Consip”, che merita di essere ripreso e analizzato più a fondo per non ripetere il cortocircuito tra politica, giustizia e informazione che s’era già verificato ai tempi di Tangentopoli. Sono 25 anni ormai che sentiamo parlare di “fughe di notizie”, di “sentenze mediatiche”, di “via giudiziaria alla politica”. E il risultato è che alla fine l’opinione pubblica rischia di perdersi nel labirinto delle rivelazioni, senza riuscire più a capire bene qual è la verità.
Ha avuto ragione Antonio Padellaro, fondatore di questo giornale, a replicare polemicamente in un recente dibattito televisivo che alla “cultura del sospetto” si contrappone nella lotta al malaffare e alla corruzione la “cultura dell’im pu n i tà ”. Cioè la lunghezza dei processi, la confusione delle carte e delle prove, il fatto che poi alla fine non paga quasi mai nessuno. In un Paese in cui i tempi della giustizia sono così dilatati, è fatale che i giornali raccolgano e riferiscano anticipazioni o indiscrezioni in attesa che si arrivi finalmente in un’aula di tribunale.
È VERO che il “sospetto” può diventare un’arma a doppio taglio. Ma è pur vero, come ha osservato ancora Padellaro, che spesso è l’unico strumento utilizzabile contro il muro di gomma dell’impunità, della complicità, dell’omertà. E perciò, nell’alternativa fra l’una e l’altra, bisognerebbe ripristinare quella “cultura della legalità” che si fonda sul rispetto delle regole: da parte dei politici, innanzitutto, che hanno certamente responsabilità maggiori dei comuni cittadini; ma anche da parte dei giudici e di noi giornalisti. Le regole sono quelle fissate in primo luogo dalla Costituzione e dai Codici, a cominciare da quello penale e da quello civile. Ma sono anche quelle contemplate dai codici di comportamento, dalla trasparenza e dalla correttezza. Il garantismo consiste proprio in questo: non sostituire la “presunzione d’innocenza” – principio fondamentale della civiltà giuridica – con una “presunzione di colpevolezza”, in forza di un pre-giudizio o di un “partito preso”.
È il Codice di procedura penale a stabilire all’art. 329 che “gli atti d’indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria sono coperti dal segreto fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari”. Scagli la prima pietra chi di noi non l’ha violato o fatto violare decine o centinaia di volte. Ma in questo caso, di fronte alle ripetute “fughe di notizie”, la Procura di Roma ha revocato ai carabinieri del Noe (Nucleo operativo ecologico) la delega a svolgere ulteriori indagini, individuando in quel reparto la fonte da cui possono essere scaturite.
Per una volta, dunque, non si trovano sotto accusa i giornalisti che sono sempre l’ultimo anello della catena mediatica. E che, per dovere professionale, quando ricevono una notizia da una fonte certa e attendibile non possono occultarla. Nella vicenda in questione, c’è piuttosto un’altra “fuga” ancor più rilevante di cui va accertata l’origine: quella che ha rivelato la presenza di microspie installate negli uffici della Consip e poi non a caso rimosse. Per questa ipotesi di reato (rivelazione di segreto e favoreggiamento) sono indagati – come si sa – il ministro Lotti, il comandante generale dei carabinieri Del Sette e il comandante della Legione Toscana Saltalamacchia. Ma qui non si tratta, evidentemente, di una “fuga a mezzo stampa”.