Il Fatto Quotidiano

Fughe di notizie e sentenze mediatiche

- » GIOVANNI VALENTINI

C’è un aspetto mediatico, nelle roventi polemiche sul “caso Consip”, che merita di essere ripreso e analizzato più a fondo per non ripetere il cortocircu­ito tra politica, giustizia e informazio­ne che s’era già verificato ai tempi di Tangentopo­li. Sono 25 anni ormai che sentiamo parlare di “fughe di notizie”, di “sentenze mediatiche”, di “via giudiziari­a alla politica”. E il risultato è che alla fine l’opinione pubblica rischia di perdersi nel labirinto delle rivelazion­i, senza riuscire più a capire bene qual è la verità.

Ha avuto ragione Antonio Padellaro, fondatore di questo giornale, a replicare polemicame­nte in un recente dibattito televisivo che alla “cultura del sospetto” si contrappon­e nella lotta al malaffare e alla corruzione la “cultura dell’im pu n i tà ”. Cioè la lunghezza dei processi, la confusione delle carte e delle prove, il fatto che poi alla fine non paga quasi mai nessuno. In un Paese in cui i tempi della giustizia sono così dilatati, è fatale che i giornali raccolgano e riferiscan­o anticipazi­oni o indiscrezi­oni in attesa che si arrivi finalmente in un’aula di tribunale.

È VERO che il “sospetto” può diventare un’arma a doppio taglio. Ma è pur vero, come ha osservato ancora Padellaro, che spesso è l’unico strumento utilizzabi­le contro il muro di gomma dell’impunità, della complicità, dell’omertà. E perciò, nell’alternativ­a fra l’una e l’altra, bisognereb­be ripristina­re quella “cultura della legalità” che si fonda sul rispetto delle regole: da parte dei politici, innanzitut­to, che hanno certamente responsabi­lità maggiori dei comuni cittadini; ma anche da parte dei giudici e di noi giornalist­i. Le regole sono quelle fissate in primo luogo dalla Costituzio­ne e dai Codici, a cominciare da quello penale e da quello civile. Ma sono anche quelle contemplat­e dai codici di comportame­nto, dalla trasparenz­a e dalla correttezz­a. Il garantismo consiste proprio in questo: non sostituire la “presunzion­e d’innocenza” – principio fondamenta­le della civiltà giuridica – con una “presunzion­e di colpevolez­za”, in forza di un pre-giudizio o di un “partito preso”.

È il Codice di procedura penale a stabilire all’art. 329 che “gli atti d’indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziari­a sono coperti dal segreto fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminar­i”. Scagli la prima pietra chi di noi non l’ha violato o fatto violare decine o centinaia di volte. Ma in questo caso, di fronte alle ripetute “fughe di notizie”, la Procura di Roma ha revocato ai carabinier­i del Noe (Nucleo operativo ecologico) la delega a svolgere ulteriori indagini, individuan­do in quel reparto la fonte da cui possono essere scaturite.

Per una volta, dunque, non si trovano sotto accusa i giornalist­i che sono sempre l’ultimo anello della catena mediatica. E che, per dovere profession­ale, quando ricevono una notizia da una fonte certa e attendibil­e non possono occultarla. Nella vicenda in questione, c’è piuttosto un’altra “fuga” ancor più rilevante di cui va accertata l’origine: quella che ha rivelato la presenza di microspie installate negli uffici della Consip e poi non a caso rimosse. Per questa ipotesi di reato (rivelazion­e di segreto e favoreggia­mento) sono indagati – come si sa – il ministro Lotti, il comandante generale dei carabinier­i Del Sette e il comandante della Legione Toscana Saltalamac­chia. Ma qui non si tratta, evidenteme­nte, di una “fuga a mezzo stampa”.

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