Il Fatto Quotidiano

Alla “Firpo-Buonarroti” di Genova si studiano davvero gli Anni di piombo

Non qualche convegno a tema, ma un vero percorso d’avanguardi­a e critico sul terrorismo e le sue conseguenz­e

- » NANDO DALLA CHIESA

Genova, Marassi. Da una parte il carcere e lo stadio che fu di Gianluca Vialli e Gigi Meroni. Dalla parte opposta un palazzone anonimo e, dentro, una scuola superiore. Turismo e geometri. Sei piani, a terra ancora i segni dell’ultima inondazion­e del Bisagno. Eppure è qui che si sta realizzand­o uno dei pochissimi tentativi mai operati di studiare seriamente la storia degli anni di piombo.

NON L’INCONTRO SPOT con un familiare di vittima, non l’ospitata dell’ex brigatista di turno con contorno di polemiche. E nemmeno il convegno pluralista di una giornata e via. Quante volte si è detto che quel periodo non può essere rimosso. Poi però nessuno si prende la briga di costruirci percorsi di studio. Perché sono esigenti, perché la materia urla e riapre ferite. Qui alla “Firpo-Buonarroti”, scuola tecnica d’avanguardi­a, ci sta lavorando da mesi un centinaio di ragazzi. “Siamo convinti che la scuola debba rielaborar­e anche con fatica un argomento difficile e controvers­o come quello del terrorismo”, dice il dirigente scolastico Luca Barberis. La co- pertina del progetto è aperta da due foto: a destra quella di Aldo Moro prigionier­o, davanti al drappo a cinque stelle dei suoi carnefici; a sinistra, e non per caso, l’immagine di una vecchia manifestaz­ione studentesc­a in cui campeggia un cartello, “Vogliamo pensare”. Più una piccola galleria di protagonis­ti, a partire da Guido Rossa, l’operaio dell’Italsider ucciso per avere denunciato un complice dei terroristi in fabbrica. Guido Rossa e l’omertà. Bisogna partire da qui per capire il valore di questa esperienza collettiva. Perché siamo a Genova, che con la sua industria di Stato e la vasta influenza della tradizione comunista fu tra i grandi incubatori della lotta armata e del silenzio-assenso che la circondò. Almeno finché l’assassinio di Rossa non chiarì le parti in tragedia. Solo chi conosce quella rimozione e l’oblio delle lapidi, può misurare il valore del mettersi a studiare insieme il libro di Franceschi­ni, il capo brigatista di Reggio Emilia, o Le due guerre di Gian Carlo Caselli, o la narrazione dei Figli della notte di Giovanni Bianconi. E i testi scritti da familiari delle vittime, Sabina Rossa e Benedetta Tobagi o Mario Calabresi, testimone del clima in cui si affermò l’idea della “coerenza rivoluzion­aria”. E poi filmati, e documentar­i, e incontri. Nell’auditorium a semicerchi­o ragazze e ragazzi ascoltano in silenzio, tra curiosità ed emozione, una nuova storia di quegli anni. Mettono ogni minuto alla prova quel che sanno, come mi dirà una di loro in una lettera bellissima. Le domande hanno alle spalle le cose lette e sentite. E si capisce la profondità del tracciato. C’è Guido Rossa sullo sfondo, naturalmen­te, con il suo isolamento, anche se ne viene accusato pure lo Stato. Serpeggia l’interrogat­ivo se la severità del giudizio verso i terroristi implichi la richiesta di pene più dure di quelle scontate (“pensa che dovevano pagare di più”?). Più di un ragazzo evoca l’eccesso di carcere subito da Curcio e Franceschi­ni, “che non si sono macchiati di delitti di sangue”, obbligando chi parla a ricordare il concetto di “mandante”. Vengono evocati i “brigatisti non violenti”. Si coglie la voglia di capire al di là delle emozioni del tempo. Talora si intravede Robin Hood, più spesso un orrore maturo. Affiorano gli echi di narrazioni, sentite chissà dove, di tempi dittatoria­li. Giunge l’interrogat­ivo sulle differenze tra quel terrorismo e quello odierno dello Stato islamico. È sforzo continuo, sincero.

IL CONFRONTO con il libro di Caselli e con la storia del generale dalla Chiesa sono la spinta a fare paragoni tra mafia e terrorismo. Lo Stato, le persone, “quel che possiamo fare noi giovani”. Parlano della paura e della responsabi­lità. Molti di loro hanno partecipat­o in passato ad altri percorsi, tra cui un viaggio (in treno, per ridurre le spese) in Sicilia. Tant’è che l’ultima domanda giunge del tutto eccentrica: “Che ne è stato di Pino Maniaci?” chiede un ragazzo. Si rizzano le antenne. Vogliono sapere del direttore di Telejato da loro direttamen­te conosciuto come eroe dell’informazio­ne e poi finito nei guai con la giustizia. Onore a questa scuola per operatori turistici e per geometri che fa quello che non si fa nelle università, per conoscere il paese in cui si vive. Onore a questo pugno di professore­sse e professori di più generazion­i (Caterina, Simona e molti altri) capaci di sfidare, proprio da Genova, le rimozioni e le convenzion­i. Di sfidare un paese che parla di memoria e mette in soffitta la storia.

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Guido Rossa Operaio ucciso perché denunciò un terrorista

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