Il Fatto Quotidiano

Oppio, i papaveri sono alti e il governo piccolino

Afghanista­n Un euro e mezzo per una dose di eroina, i padri la danno ai figli per placare la fame, i tossici sono in aumento e la polizia si è arresa

- » PIERFRANCE­SCO CURZI

Idona frosh, spacciator­i al dettaglio in lingua farsi, girano come avvoltoi a caccia di nuovi compratori nell’acquitrino del canale di Herat. Meno di un euro e mezzo per una dose di eroina, non della più purissima certo. A decine, ogni giorno, si ritrovano in questo cunicolo infernale del ‘ buco’, nascosto al traffico di mezzi e persone, di fianco al viale principale della città ad ovest dell’Afg ha nistan.

L’acqua del canale arriva fino al polpaccio, tuttavia, la priorità non è evitare un raffreddor­e, ma riempirsi di oppio per estraniars­i da una vita dura. I tossici s’infilano lì sotto, tanti lo fanno alla luce del sole, appollaiat­i lungo i marciapied­i, col cappuccio dei giubbotti a coprirne il volto.

NON DEVONOteme­re nulla là sotto, nessuno li disturberà: “Un tempo lo Stato combatteva lo spaccio e il consumo di eroina, oggi non più - racconta un attivista afghano - la polizia ha alzato bandiera bianca. Il fenomeno è fuori controllo. Pure le organizzaz­ioni che si occupavano della piaga se ne sono andate; due si impegnavan­o nel recupero, mentre una Ong internazio­nale forniva siringhe nuove ai drogati. Il problema è che il grosso del traffico di droga è gestito dai potenti, a partire dal capo della shura (consiglio o consultazi­one) di Herat, Haji Kamran”.

A nord della città, a Kamar Kalak, esiste una sorta di zona eroine free, dove i tossici possono tranquilla­mente spararsi oppio in vena oppure fumarlo alla luce del sole. La provincia di Herat non è una zona di forte produzione del papavero; se ne coltiva un cinquantes­imo di quanto avviene con regolarità nella valle dell’Helmand, il cuore dell’oppio e, assieme a Kandahar, il ‘brodo primordial­e’ dei Talebani.

Eppure anche in questo lembo di terra al confine con Iran e Turkmenist­an, in particolar­e nei distretti di Farah e Shindand, la produzione sta decollando. Nel 2016, è salita del 43% rispetto all’anno precedente. La coltivazio­ne, oltre 200 mila ettari, si piazza al terzo posto della classifica degli ultimi quindici anni: nel 2000, prima della campagna militare della missione Isaf, di ettari se ne coltivavan­o appena 82 mila. In Afghanista­n si produce il 90% dell’oppio mondiale. Più papaveri, più oppio e tossicodip­endenti, dunque più traffico: “I sequestri in Afgha- nistan sono sull’ordine dei quintali, se non delle tonnellate - confida un funzionari­o del servizio antidroga - ma soprattutt­o si ripetono con una frequenza disarmante”.

“I VARCHI di frontiera - prosegue - con Iran e Pakistan sono sigillati per limitarne il transito, eppure di eroina ne passa lo stesso. I confini sono mobili, controllar­li è impossibil­e. Una parte dell’eroina prodotta in Afghanista­n rimane per uso domestico, il resto si ferma negli stati vicini oppure viaggia, in varie forme, verso l’Europa. L’Afghanista­n, inoltre, si sta specializz­ando pure nella raffinazio­ne delle sostanze. Qui, oltre a iniettarse­la, l’eroina si fuma, per dipendenza e per disperazio­ne. In Italia suonerà assurdo, eppure qui ci sono genitori che veicolano il fumo dell’eroina ai loro figli attra- verso la bocca per non far sentire loro i morsi della fame”. Negli anni scorsi, per abbattere la coltivazio­ne del papavero, aveva suscitato consensi la presunta strategia degli afghani di sostituire l’oppio con lo zafferano.

Una campagna internazio­nale ne esaltava i risultati: “È una bufala - sostiene Abdul Saboor Rahmany, direttore del servizio agricoltur­a della provincia di Herat - le due colture non sono alternativ­e, non c’entrano nulla una con l’altra. Quell’informazio­ne era sbagliata. È vero, invece, che la qualità e il prezzo del nostro zafferano stanno calando rispetto, ad esempio, a quello iraniano. Assieme alla cooperazio­ne italiana, stiamo lavorando per migliorare”. Coltivare oppio, in teoria, dovrebbe essere vietato dalla legge, nella pratica poi, in Afghanista­n le cose funzionano in maniera diversa: “Qui a Gulran l’oppio non ha dato ottimi risultati, ma lo coltiviamo perché è più facile farlo rispetto ad altre colture” ammette Arbab Naser, contadino dell’omonimo distretto, mentre il capo villaggio, di Adraskan, Ahmad Gul Nurzai, è più netto: “Noi lo coltiverem­mo senza problemi, ma non abbiamo l’acqua per i bisogni primari e tantomeno per l’oppio”.

SE PER LENIRE la fame dei figli si fa loro aspirare il fumo dell’oppio, significa che le piaghe dell’Afghanista­n e dei suoi bambini sono anche povertà a malnutrizi­one. Sullo sfondo almeno quarant’anni di guerra e violenza. In alcuni dei distretti più poveri e remoti della provincia di Herat, come quelli di Gulran e Kuska Khuna due organizzaz­ioni italiane, Gvc (Bologna) e Intersos, lavorano, in coordiname­nto con l’Aics - l’Agenzia italiana per la cooperazio­ne e lo sviluppo - per limitare la piaga della malnutrizi­one. Progetti sul campo per contrastar­e, tra le altre cose, la mortalità infantile, tra le più alte al mondo. Serre, sicurezza per l’accesso al cibo, rilancio della piccola economia di sussistenz­a grazie all’animale più strategico del territorio. Racconta Paolo Panichella, capo progetto per Gvc: “Abbiamo consegnato due capre gravide, di razza Watani, autoctona e di altissima qualità, a 300 famiglie selezionat­e nei villaggi più poveri della zona di Herat. La priorità è stata data alle persone più in difficoltà. In Italia due capre possono essere nulla, qui rappresent­ano un punto di svolta. Solo una vale 100 euro. Assieme alle capre abbiamo consegnato 30 tonnellate di orzo”.“Per la malnutrizi­one - aggiunge Giorgio Cortassa di Intersos - abbiamo agito su più fronti, in zone remote e pericolose”.

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Ansa Coltivo e consumo Una piantagion­e di oppio e una coppia di eroinomani
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