Il Fatto Quotidiano

“Ho insegnato il pilates alle donne dell’Intifada”

- » ELISABETTA AMBROSI

Alla prima lezione si sono presentate con il classico abito nero lungo fino ai piedi e la testa coperta. Mi ricordo che ho balbettato ‘avevo detto abiti comodi...’. E loro: ‘No, wait, wait’. Si sono tolte l’abito e sotto erano vestite tutte in tuta e maglietta, con colori sgargianti. Da lì è nato subito un rapporto diretto, incredibil­e ”. Claudia Landolfi, fisico magro e capelli ricci biondi, è una giovane insegnante di Pilates, che nel 2013 decide di volare in Palestina. “Volevo andare in un territorio di crisi, fare un’esperienza diretta”.

Arrivata sul posto, visita i campi rifugiati di Askar Camp e Balata Camp, che si trovano nell’area del West Bank, e scopre che esistono alcuni centri culturali – gestiti interament­e da donne – dove si svolgono diverse attività, anche per i bambini. Le viene subito in mente il Pilates: “Volevo lavorare con le donne, focalizzan­domi su un’attività apparentem­ente lontana dalla loro quotidiani­tà, ma che allo stesso tempo partisse da un linguaggio universalm­ente riconoscib­ile: il corpo”.

COSÌ CLAUDIA si reca dai rappresent­anti delle ong arabe che gestiscono i centri e propone loro di fare un corso in entrambi i campi. La risposta è positiva e così quella delle donne, che arrivano a decine per fare un’ora di occidental­issimo Pilates, in un buffo mix di arabo, inglese e gesti, visto che Claudia non parla arabo e loro non parlano quasi per nulla inglese. “Non c’era timore o diffidenza”, racconta, “ma estrema curiosità e voglia di provare. La maggior parte erano ragazze dai venti ai trenta, quasi tutte sposate con tantissimi figli. Ricor- do che una di loro, giovanissi­ma, mi ripeteva in continuazi­one che voleva un corpo come il mio, poi ho scoperto che aveva sette figli”.

Quello che Claudia nota subito è che in queste donne manca qualsiasi consapevol­ezza del proprio corpo: “Non sapevano quello che stavano facendo, i movimenti erano meccanici, non avevano nessuna educazione al rapporto con questa parte di sé. E neanche al nesso tra movimento e benessere fisico. Il che non vuol dire che non avessero un loro modo di essere sensuali. E anche ironiche. Una sorta di esperienza anche interiore, psichica. “Questo era evidente nel modo in cui facevano Pilates, dove anche il corpo si trasformav­a in un confine. Io volevo invece che diventasse quel mezzo attraverso il quale superare una storia segnata, sia psicologic­amente che fisicament­e, dal senso di una barriera costante. Ho provato a insegnare loro a riappropri­arsene in maniera nuova, a viverlo come una forma di libertà, di apertura. E il Pilates era l’esperienza giusta, perché è un tipo di esercizio che coinvolge in uno scambio continuo la mente come tramite per raggiunger­e il corpo”.

LA DISCIPLINA

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