Facebook, trappola censura
Per arginare contenuti offensivi e “fake news” in rete si adottano regole sempre più stringenti: il confine tra controllo legittimo e violazione della libertà di parola è diventato molto labile
Gennaio 2016: Ivano Porpora è uno scrittore, su Facebook pubblica un post provocatorio in difesa dei diritti degli omosessuali e per farlo, utilizza più volte la parola “figa”. Descrive l’organo femminile dal suo punto di vista, esprime la sua venerazione. Il post viene segnalato da alcuni utenti, ma Facebook non ritiene debba essere rimosso. Così, un anno dopo, decide di ripubblicare esattamente quel post. Lo ricopia e lo condivide di nuovo. Ma stavolta viene bannato: significa che non può più scrivere sul suo profilo personale per 30 giorni, reo, secondo il social network, di aver descritto un atto sessuale (vietato dalla policy). “Per me – spiega Ivano – è un danno professionale: il 27 aprile esce il mio libro e non posso utilizzare il profilo per comunicare le date delle presentazioni o confrontarmi con i lettori. Quanto più che il mio post aveva un intento chiaro”. Soprattutto, Ivano sa che quando rientrerà in possesso del profilo si sentirà condizionato nella libertà di espressione: “Per non rischiare di essere ri -bloccato. Ma non capisco cosa sia cambiato in un anno”.
ABBIAMO ALLORAchiesto agli utenti di Twitter e Facebook di raccontarci le loro storie. Sono arrivate decine e decine di segnalazioni: pagine di cinema sospese per aver condiviso un’immagine di nudo estrapolata dal film Eyes Wide Shut, utenti sospesi anche per una settimana per aver condiviso e commentato – con citazioni ironiche – gli articoli sul ban che invece ha colpito Mario Adinolfi. E, poi, i casi di satira. “Sono stato bannato quattro volte, solo quest’anno: due blocchi da una settimana e due da un mese – racconta Luca Piersantelli, vignettista che si firma come Pierz -. Prima per una vignetta sul papa che diceva ‘froci’: l’hanno cancellata. Poi ho fatto una vignetta sui gay e mi hanno bannato per averla condivisa, ma non l’hanno cancellata. Per finire, sono stato bannato per aver condiviso gli screen shot di una conversazione privata che ho avuto con uno di quegli account fasulli che ti chiedono di spogliarti in chat”.
DANIELE Raco, invece, è un comico. Racconta che il suo profilo è stato chiuso per la segnalazione di una foto di un manifesto elettorale di Raffaella Paita, candidata alla presidenza della regione Liguria per il Pd. “L’originale – spiega Raco – recitava ‘La Liguria va veloce’ e io aggiunsi ‘Anche il Bisagno non scherza’”. Il riferimento ironico era all’alluvione e al fatto che all’epoca la Paita era assessore regionale alla protezione civile. “In quei giorni era irreperibile. In molti segnalarono la foto e per qualche giorno fui oscurato”.
Anche Alessio Spataro è un vignettista. “Mi è capitato di essere sospeso da Facebook almeno due volte negli ultimi anni e sempre per critiche al M5s. La seconda volta, a febbraio scorso, è durata 30 giorni dopo un mio commento ironico e critico, privo di insulti o diffamazioni, rivolto a un’attivista grillina romana che in un gruppo di un comitato di quartiere diffondeva notizie per me false e razziste sui negozianti stranieri. Ho sollecitato gli amministratori del social, ma niente. Credo che questi e- pisodi capitino dopo segnalazioni mirate e numerose, magari utili solo a soddisfare i desideri servili di qualche piccolo Saccà del M5s, che considera i social un’enorme piazza per la propaganda becera e superficiale”.
Facebook ha, giustamente, policy molto stringenti legate all’utilizzo della violenza e di determinate parole vietate. Valgono anche per le immagini: stop a ogni tipo di rappresentazione di nudo (incluse le opere d’arte) o di immagini violente. Sono invece permesse satira e ironia. Il problema, sui social network, è che spesso l’attività di identificazione e di analisi di questi elementi av- viene per una combinazione di algoritmi e segnalazioni degli utenti. Il che complica la distinzione tra le parole in sé e il contesto in cui sono inserite.
Nella satira o negli intenti parodistici (escludendo quindi le manifestazioni estreme e di reale incitamento all’odio) determinate parole possono essere impiegate per veicolare messaggi completamente diversi rispetto al loro significato ‘puro’. Così come un occhio non umano o parziale può fraintendere toni e intenzioni
L’ANALISI DEI SIGNIFICATI È AFFIDATA ALLE SEGNALAZIONI DEGLI UTENTI E AGLI ALGORITMI , IL MECCANISMO NON CONSIDERA IL CONTESTO
E NON CONTEMPLA IRONIA E SATIRA
di un messaggio scritto. Diverso, invece, il tema delle fake ne
ws. Dettaglio: Facebook, nei giorni scorsi ha attivato le segnalazioni contro bufale che circolano sulla sua piattaforma (un bollino con un triangolo rosso e la definizione “contestata” da team di verificatori esterni) rispettivamente in Francia, Olanda e Germania. Cosa hanno in comune questi Paesi europei? Stanno per affrontare le elezioni. E si teme che le notizie false possano condizionare l’opinione pubblica. I tedeschi sono stati i primi a sperimentare il sistema di allerta sulle bufale. E, anzi, la cancelliera Merkel ha anche pensato di introdurre una legge che prevede multe fino a 500mila euro alle aziende chenon rimuovano una notizia falsa entro 24 ore.
IN FRANCIA, la minaccia del Front National di Marine Le Pen ha messo in moto una cordata di verificatori che include importanti testate come Libe
ration e Le Monde. Senza contare la recente crociata contro gli hacker russi che fabbricherebbero bufale ad hoc per in- fluenzare l’opinione pubblica (un dibattito aperto dall’elezione di Donald Trump).
Google, ad esempio, ha annunciato di non fornire più pubblicità a siti di bufale, Twitter di aver affinato la tecnica con cui i contenuti più attendibili e seri saranno mostrati meglio di quelli ritenuti ‘spazzatura’.
Il problema è chiaro: nella storia che trovate qui accanto si racconta come a pagare per questo improvviso crescente controllo – in linea anche con le battaglie pubbliche contro l’hate speeche le bufale, si pensi a quella sponsorizzata dalla presidente della Camera, Laura Boldrini – rischia seriamente di colpire la libertà di espressione, fornendo facili strumenti per censura e rivalse sia politiche che personali. “Capisco che i social sono aziende private con le loro regole – spiega Porpora – ma permeano così tanto la società che non si può negarne la funzione pubblica”. Della parola sui social non si può più fare a meno, è vero: ma la parola è libera. Per Costituzione.