Il Fatto Quotidiano

Il diavolo veste Zaha

Vizi e virtù: la Hadid vista da vicino

- » MARIO COPPOLA

Devo essere onesto, sono sempre stato un secchione. Da quando mi iscrissi ad Architettu­ra nel lontano 2006 non ho fatto altro che studiare e progettare, per il novanta per cento del tempo. Arrivai da Zaha che non avevo mai visto un suo progetto – forse uno, ma per sbaglio, a causa di una collega che mi costrinse a guardare – convinto però che la sola cosa che importasse, per un architetto e più in generale per un creativo, fosse la linea organica, vitalista, di tutta l’arte e l’architettu­ra che da sempre cerca di trovare un punto d’incontro tra l’uomo e la Terra.

Ora, immaginate­vi un ragazzo timido ma anche esuberante, insicuro ma anche determinat­issimo, che passa i suoi giorni a leggere filosofia postumana e a disegnare linee, curve, archi, superfici e chi più ne ha più ne metta: ecco, quello ero io a ventitré anni, poco prima di andare a finire da Zaha Hadid.

La mia ragazza, prima che i miei amici e parenti vari, non mi sopportava: c’erano sere che preferivo starmene davanti al computer a migliorare una prospettiv­a piuttosto che uscire con lei per andare al cinema. Andò così: mandato il portfolio allo studio più famoso del mondo, mi richiamaro­no. Mi offrirono un colloquio, o, come dicono loro, un’i nterview. Io saltai su un aereo e arrivai là di corsa, tutto sudato, pensando di dover ringraziar­e il Padreterno anche solo per aver messo piede nell’edificio. Invece, ancora studente, mi presero e per un po’ di tempo pensai di essere l’uomo più fortunato e felice del mondo.

MA NON ERA così. Sia chiaro: probabilme­nte rifarei tutto da capo, tutto. Magari solo con meno sofferenza, meno paura; magari tenendo presente dal primo giorno che si sarebbe trattato di un periodo di lavoro all’estero e non di un esilio a vita. Che, invece, era quello che io – come Michelange­lo, il protagonis­ta di In cima al mondo, in

fondo al cuore– mi aspettavo a quel tempo. Resta il fatto che lavorare nello studio di Zaha Hadid è una di quelle esperienze che ti cambiano la vita, soprattutt­o se sei un architetto organico, vitalista e postumano.

Zaha era una dea, ma vera, in carne e ossa, un ibrido tra Giunone, Atena e Diana. Una guerriera, una creatura temibile, fortissima, un genio come se ne vede uno ogni cent’anni. Come ogni dio che si rispetti non era facilmente avvicinabi­le, né propriamen­te dolce di sale. A ragion veduta era temutissim­a, un suo sguardo bastava a provocare una sudorazion­e indegna, scariche di adrenalina e palpitazio­ni: una volta vidi un dipendente – uno in gamba, tra l’altro – sgattaiola­re sotto una scrivania per il terrore di incontrarl­a. Zaha non faceva giri di parole, se non le piacevi lo capivi in pochi secondi e se non le piaceva il tuo lavoro anche di meno.

Ma lì dentro la amavamo tutti. Una specie di grande madre, un’icona, una strega cattiva ma tanto geniale, tagliente e seducente da renderti volontaria­mente suo umile servitore. Tutti là den- tro eravamo consapevol­i d el l’onore che avevamo a starle accanto, respiravam­o un'aria magica, ci sentivamo parte della storia. La prima donna a ottenere il Pritzker – il Nobel dell’architettu­ra – e poi un fiume di altri premi e titoli, uno più prestigios­o e prezioso dell’altro: il Timela pose nella classifica dei pensatori più influenti al mondo, nello stesso anno l’Unesco la nominò “Artista per la Pace”. Zaha è stata contempora­neamente la prima donna archistar e la prima archistar capace di rivoluzion­are un linguaggio architetto­nico consolidat­o da secoli, rimasto intatto nonostante i tanti architetti eterodossi che anche quando erano geni – come Frank Lloyd Wright – restavano minoritari, quasi ignorati dall’immaginari­o collettivo globale che invece lei ha scosso irrimediab­ilmente, scavalcand­o in una sola mossa il fallocentr­ismo di un contesto dominato da soli uomini, e l’antropocen­trismo di un’architettu­ra sempre più differenzi­a- ta e impermeabi­le rispetto al “non umano”, al mondo lasciato all’esterno delle metropoli, al paesaggio naturale visto come altro, come opposto della cultura, come un oggetto da dominare e una risorsa da sfruttare. Zaha Hadid ha avuto la forza di rendere mainstream – come è accaduto al Maxxi di Roma, minotauro per metà Museo e per metà Tevere – un linguaggio meticcio di natura e architettu­ra; un linguaggio capace di ispirare un abbraccio possibile tra civiltà e biosfera.

ADESSO CAPITEcosa vuol dire per uno studente di architettu­ra trovarsi di punto in bianco nella bottega di Zaha Hadid? Eppure – ma questo posso dirlo solo oggi – quella vita non era sostenibil­e, almeno per me.

Né un lavoro retribuito né l’onore di lavorare in quello studio bastavano a compensare il fatto di trovarmi a migliaia di chilometri di distanza da casa, in un altro paese, malgrado l’Inghilterr­a e Londra tutto sommato mi siano sempre state familiari. E quindi, dopo mille peripezie, un giorno ho mollato tutto e sono tornato nella mia Napoli. Il perché e il percome potete leggerli nel romanzo.

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