Ruggeri riunisce i Decibel: “Siamo ancora i nobili del rock”
In tour con l’album “Noblesse oblige”: “Negli anni 70 i dischi si suonavano davvero, senza computer”
Un mattino d’i nverno del 1979 Enrico Ruggeri accende la tv. “E vedo la faccia del mio tabaccaio. Sotto casa avevano appena ucciso il giudice Alessandrini. In quegli anni violenti a Milano bastava girare per strada con un album di Bowie sotto il braccio per essere etichettato di destra. Molti di noi furono salvati dalla musica”. Nascondendosi magari nelle cantine: “Noi provavamo in un magazzino di pellami. Venivano cinque amici a sentirti, c’erano i cartoni delle uova sulle pareti per attutire i suoni. Le cantine erano dei batteristi, con i quali non abbiamo mai avuto un buon rapporto, perché erano gli anni del progressive e volevano fare i virtuosi. Uno lo scaricammo all’autogrill in un viaggio. A noi servivano essenziali, eravamo bestie punk e new wave”.
QUEL “NOI” nasconde i Decibel, nati al liceo Berchet intorno al fatidico ’77: oggi Ruggeri ha richiamato attorno a sé gli ex compagni di scuola, Silvio Capeccia e Fulvio Muzio, per una reunion nata quasi per caso a Londra. “Eravamo andati da carbonari a omaggiare gli Sparks dal vivo al Barbican, il quarantennale di un loro storico Lp, e ci siamo ritrovati in piena atmosfera anni Settanta”. Cioè quando “i dischi si suonavano davvero, senza grooveo campionamenti, e per fare concerti dovevi provare e farti il mazzo. Roba che ora, con il virtuale che domina, sembra lunare”. Lì è nata la sfida di ritrovarsi, perché “i gruppi rock italiani si dividevano in due fronti: quelli che suonavano come il primo album dei Decibel e quelli come il secondo”. Spaccarono la scena nazionale, e ora tornano con una provocazione da vecchi magnifici rompicoglioni. Una tournée in corso, e un album,
I ragazzini ascoltano 200 canzoni al giorno e sarà impossibile che la loro memoria trattenga fra 20 anni cose fondamentali
“Noblesse Oblige”, che non suona come un progetto di Ruggeri mascherato, bensì come il ritorno di una band decisiva, almeno nel nostro Paese. Tra gli inediti si fanno largo rilucidature di vecchie perle, come l’epocale “C on t es s a”. Rivela Ruggeri: "Marina Ripa di Meana? Di sicuro era dedicata a qualche dama che mi turbava. Ma si sparse la voce fosse ispirata a Renato Zero, e con una mossa alla Malcolm McLaren non facemmo nulla per smentire. I sorcini si aggiunsero alle schiere di quanti ci insultavano come traditori della scena alternativa per aver partecipato a Sanremo ’80. Dopo il Festival andammo ad ascoltare i Ramones al Palalido e in quattromila ci urlarono ‘Decibel figli di puttana’. Mi ritrovavo scritte minacciose davanti al portone”. Però all’Ariston, dove arrivarono terzi dopo Cutugno e Malepasso, i no- stri si guadagnarono l’ammirazione di Keith Emerson. “Si accompagnava a una cantante che non ebbe fortuna, Linda Lee. Ascoltò le prove di ‘Contessa’ e ci fece i complimenti, giudicandola ‘inusuale’. Un bel premio per il nostro coraggio di essere a Sanremo in mezzo a gruppi come i Collage o il Giardino dei Semplici, tutti belli cotonati, mentre Johnny Rotten incendiava il Tamigi. La nostra ‘sventura’ fu che gli Skiantos, che si candidarono anche loro alla competizione, furono scartati, e poterono così continuare la loro storia di duri e puri. Noi rimanemmo con il cerino in mano. Oggi nessuno ha da ridire se in Riviera trovi Afterhours o Marta sui Tubi”.
MA COMEspiegare agli adolescenti cosa significasse la musica quarant’anni fa? “D ovremmo raccontare di un tempo in cui, qualunque genere ti piacesse, avevi a disposizione i numeri uno. I Led Zeppelin per i rockettari, gli Eagles per gli hippy, Frank Zappa per gli esigenti, Dylan per chi amava i cantautori. Quelli della disco ci sembravano cazzoni, ma che gigante Barry White. Era un tempo in cui passavamo una settimana a sentire un solo album, con la pelle d’oca, girando in continuazione la facciata sul piatto. Oggi i ragazzini ascoltano 200 canzoni al giorno su Spotify, e sarà costituzionalmente impossibile che la loro memoria trattenga fra 20 anni qualcosa di fondamentale”. Su “Noblesse Oblige” c’è anche un brano, “Cantante Triste”, impietoso ritratto della megalomania dei divi pop nostrani. Ma Ruggeri non fa nomi: “Ce ne sono così tanti che si gloriano di riempire i palazzetti o di passare più degli altri in radio, come fosse l’unico scopo per far musica. Sarà per questo che non ho molti amici tra i colleghi...”, ride.