Della decadenza, dagli aventinisti fino a Minzolini
Perfino una bruttissima pagina di storia parlamentare come quella che ha appena visto protagonista il Senato (la mancata decadenza di Augusto Minzolini, condannato per peculato a due anni e sei mesi e interdetto per lo stesso periodo dai pubblici uffici) può portare a qualche interessante riflessione. Piccola premessa: i difensori di Minzolini – dopo aver invocato il fumus pe rs ec ut io nis che naturalmente non rientra nel caso in questione, dato che si tratta di una sentenza passata in giudicato e non di una richiesta di autorizzazione a procedere durante un’indagine - sostengono che il Parlamento non è “passacarte dei pm”. Con estrema – e dolosa – imprecisione si vuol dire che le Camere non si limitano a prendere atto della sentenza, ma giudicano in senso ampio. Così recita l’articolo 66 della Carta: “Ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità”. E - come ricorda in un blog sul sito del Fattoil magistrato Otello Lupacchini -in seno alla seconda Sottocommissione della Commissione per la Costituzione ci fu un’articolata discussione sulla scelta del verbo (“giudicare”, “accertare” o “verificare”): alla fine si optò per giudicare. Giudizio quindi è termine più ampio di verifica. Ma l’articolo 65 stabilisce che la legge determina i casi di ineleggibilità e incompatibilità con l’ufficio di deputato o senatore. E come spiegava ieri il professor Azzariti, i fatti oggetto del giudizio riguardano l’esistenza dei presupposti di incandidabilità sopraggiunta: una sentenza passata in giudicato, una pena superiore ai due anni per uno dei reati previsti dalla legge Severino. Non bisogna essere un giurista di fama internazionale per capire che il Parlamento non si può sostituire a un giudice (povero Montesquieu, si sarà rivoltato mille volte nella tomba).
VOLENDO APPROFONDIRE la “storia della decadenza”, si capisce come la massima preoccupazione dei costituenti è tutelare i parlamentari da eventuali ritorsioni politiche e abusi. Nel dibattito in sede di Assemblea - il 10 ottobre 1947 - si cita anche il più famoso caso di decadenza parlamentare, quello dei 123 deputati aventinisti (più il fascista dissidente Rocca), dichiarati appunto decaduti con un blitz di Farinacci in barba a regolamenti e consuetudini parlamentari (la decadenza, tra l’altro, non era prevista dallo Statuto albertino). “La Camera, considerato che i deputati sotto nominati fecero atto esplicito di secessione; che tali deputati continuarono a svolgere, usando delle prerogative e delle immunita parlamentari, opera di eccitamento e sovvertimento contro i poteri dello Stato; (...) dichiara tali deputati decaduti dal mandato parlamentare (seguono i nomi)”. È il “Diciotto Brumaio” di Mussolini (9 novembre, ma del 1926). Tornando all’istruttiva lettura degli atti dell’Assemblea, è evidente che mai a padri costituenti del calibro di Mortati, Ruini, Codacci Pisanelli, Lussu sfiora l’idea di garantire un senatore – troppe volte premier – condannato per frode fiscale o proteggerne uno condannato per peculato (reato contro la Pubblica amministrazione). Tutto questo arrampicarsi sui vetri dei senatori “minzoliniani” che si appellano alle prerogative costituzionali, conferma che l’uso distorto delle procedure non è mai questione solo di forma. Qui la sostanza è: il sacrosanto principio – stabilito dalla legge Severino – secondo il quale un condannato per reati gravi non può rappresentare il popolo, non vale. E nemmeno il principio che il Parlamento si attenga a leggi da lui stesso votate. Un cittadino comune interdetto dai pubblici uffici non può nemmeno fare un concorso da bidello, ma un senatore pregiudicato può sedere in Parlamento. Storia di una decadenza, anysense.