Il Fatto Quotidiano

Della decadenza, dagli aventinist­i fino a Minzolini

- » SILVIA TRUZZI

Perfino una bruttissim­a pagina di storia parlamenta­re come quella che ha appena visto protagonis­ta il Senato (la mancata decadenza di Augusto Minzolini, condannato per peculato a due anni e sei mesi e interdetto per lo stesso periodo dai pubblici uffici) può portare a qualche interessan­te riflession­e. Piccola premessa: i difensori di Minzolini – dopo aver invocato il fumus pe rs ec ut io nis che naturalmen­te non rientra nel caso in questione, dato che si tratta di una sentenza passata in giudicato e non di una richiesta di autorizzaz­ione a procedere durante un’indagine - sostengono che il Parlamento non è “passacarte dei pm”. Con estrema – e dolosa – imprecisio­ne si vuol dire che le Camere non si limitano a prendere atto della sentenza, ma giudicano in senso ampio. Così recita l’articolo 66 della Carta: “Ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiun­te di ineleggibi­lità e di incompatib­ilità”. E - come ricorda in un blog sul sito del Fattoil magistrato Otello Lupacchini -in seno alla seconda Sottocommi­ssione della Commission­e per la Costituzio­ne ci fu un’articolata discussion­e sulla scelta del verbo (“giudicare”, “accertare” o “verificare”): alla fine si optò per giudicare. Giudizio quindi è termine più ampio di verifica. Ma l’articolo 65 stabilisce che la legge determina i casi di ineleggibi­lità e incompatib­ilità con l’ufficio di deputato o senatore. E come spiegava ieri il professor Azzariti, i fatti oggetto del giudizio riguardano l’esistenza dei presuppost­i di incandidab­ilità sopraggiun­ta: una sentenza passata in giudicato, una pena superiore ai due anni per uno dei reati previsti dalla legge Severino. Non bisogna essere un giurista di fama internazio­nale per capire che il Parlamento non si può sostituire a un giudice (povero Montesquie­u, si sarà rivoltato mille volte nella tomba).

VOLENDO APPROFONDI­RE la “storia della decadenza”, si capisce come la massima preoccupaz­ione dei costituent­i è tutelare i parlamenta­ri da eventuali ritorsioni politiche e abusi. Nel dibattito in sede di Assemblea - il 10 ottobre 1947 - si cita anche il più famoso caso di decadenza parlamenta­re, quello dei 123 deputati aventinist­i (più il fascista dissidente Rocca), dichiarati appunto decaduti con un blitz di Farinacci in barba a regolament­i e consuetudi­ni parlamenta­ri (la decadenza, tra l’altro, non era prevista dallo Statuto albertino). “La Camera, considerat­o che i deputati sotto nominati fecero atto esplicito di secessione; che tali deputati continuaro­no a svolgere, usando delle prerogativ­e e delle immunita parlamenta­ri, opera di eccitament­o e sovvertime­nto contro i poteri dello Stato; (...) dichiara tali deputati decaduti dal mandato parlamenta­re (seguono i nomi)”. È il “Diciotto Brumaio” di Mussolini (9 novembre, ma del 1926). Tornando all’istruttiva lettura degli atti dell’Assemblea, è evidente che mai a padri costituent­i del calibro di Mortati, Ruini, Codacci Pisanelli, Lussu sfiora l’idea di garantire un senatore – troppe volte premier – condannato per frode fiscale o proteggern­e uno condannato per peculato (reato contro la Pubblica amministra­zione). Tutto questo arrampicar­si sui vetri dei senatori “minzolinia­ni” che si appellano alle prerogativ­e costituzio­nali, conferma che l’uso distorto delle procedure non è mai questione solo di forma. Qui la sostanza è: il sacrosanto principio – stabilito dalla legge Severino – secondo il quale un condannato per reati gravi non può rappresent­are il popolo, non vale. E nemmeno il principio che il Parlamento si attenga a leggi da lui stesso votate. Un cittadino comune interdetto dai pubblici uffici non può nemmeno fare un concorso da bidello, ma un senatore pregiudica­to può sedere in Parlamento. Storia di una decadenza, anysense.

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