Il Fatto Quotidiano

Colosseo, il maxi-restauro all’azienda che paga mazzette

Il Mibact e i 3,5 milioni alla Cobar, finita in un’inchiesta sul museo di Reggio Calabria

- » LUCIO MUSOLINO

Ha pagato il pizzo alla ‘ ndrangheta, non ha denunciato i suoi estorsori e non si è costituita parte civile nel processo chiedendo i danni alla cosca De Stefano. Ma il ministero dei Beni culturali le affida uno dei più importanti appalti su Roma: il restauro del Colosseo e il consolidam­ento delle strutture della parte ipogea. È la storia della Cobar Spa, acronimo della “Costruzion­i Barozzi”, l’impresa edile di Altamura che in via del Collegio Romano è di casa da parecchi anni. La Cobar, infatti, è uno dei grandi mattatori di appalti del Mibact. Basta solo pensare che, per conto del ministero guidato da Franceschi­ni, ha realizzato il restauro di Palazzo Barberini oltreché della “Scala del Mascarino” e della “Fontana dell’Organo” al Quirinale.

Nel 2008, per 13 milioni di euro, Cobar aveva vinto l’appalto per il restauro anche del Museo Nazionale di Reggio Calabria. Un’opera inserita nel programma per le celebrazio­ni dei 150 anni dell'Unità di Italia e completata molto dopo a causa dei costi complessiv­i che sono lievitati fino a superare i 30 milioni. Appalto per il quale adesso non è escluso che la Procura di Reggio invii in questi giorni una segnalazio­ne anche all’Anac di Raffaele Cantone per assumere i dovuti provvedime­nti.

L’IMPRESA pugliese, con un ribasso del 30%, per quasi 3 milioni e mezzo di euro dovrà realizzare i lavori di copertura del Colosseo. Un’opera il cui avviso di aggiudicaz­ione è stato firmato dal soprintend­ente Francesco Prosperett­i e pubblicato sulla Gazzetta ufficiale il 27 febbraio. Tutto procede a gonfie e vele se non fosse per il codice degli appalti. Stando all’articolo 80, infatti, “le stazioni appaltanti (in questo caso dovrebbe essere il ministero di Franceschi­ni, ndr ) escludono la partecipaz­ione alla procedura d’appalto un operatore economico che, pur essendo stato vittima, non risulti aver denunciato i fatti all’a ut ori tà giu diziar ia”. La normativa sembra cucita addosso alla Cobar che, per lavorare in riva allo Stretto, ha pagato la mazzetta alla ‘ndrangheta e ha assunto lavoratori segnalati dalle cosche.

L’ha svelato in pentito Enrico De Rosa che, al pm Stefano Musolino, ha raccontato di aver riscosso personalme­nte una parte dei soldi versati dalla Cobar al boss Gio- vanni De Stefano detto il “Principe” che poi ha dato il nome all’operazione in cui sono stati arrestati il capocosca e i suoi emissari. Per lavorare in “tranquilli­tà” e restaurare il museo che ospita i Bronzi di Riace, l’impresa di Altamura ha pagato circa 200 mila euro consentend­o alla famiglia mafiosa di Archi di infiltrars­i pure nei lavori di restauro del Museo.

LE INDAGINI dei carabinier­i hanno riscontrat­o le dichiarazi­oni del pentito ma gli investigat­ori non hanno avuto la collaboraz­ione dal capo cantiere Domenico Trezza e dal direttore dei lavori Michele Santoro. I due dipendenti della Cobar, infatti, hanno reso dichiarazi­oni “false” e “reticenti”. Nel decreto di fermo, i pm parlano “ostinata omertà del Trezza e del Santoro”. Se quest’ultimo ha dichiarato di non aver “mai subito alcuna richiesta estorsiva da esponenti della ‘ndrangheta locale”, il geometra Trezza è stato ancora più esplicito e, davanti alle prove schiaccian­ti della Procura, ha sostenuto “di non aver mai corrispost­o tangenti ad alcuno”. Ha cercato di metterci una pezza l’amministra­tore unico della Cobar, il geometra Vito Matteo Barozzi, che il 23 luglio 2015 ha chiesto di essere interrogat­o dalla Dda e ha ammesso le pressioni subìte dalla ‘ndrangheta. Ma solo dopo le dichiarazi­oni del pentito e dopo il tentativo vano dei magistrati di avere la collaboraz­ione dei suoi dipendenti. “Agli inizi del 2010 – fa mettere a verbale Barozzi –, Trezza mi veniva a rappresent­are che c’era un soggetto diventato molto più insistente in alcune richieste… minaccioso... minacce anche pesanti. Io, un po’ superficia­le o perché non capivamo la gravità che onestament­e capisco adesso dopo questa vostra venuta ad Altamura, in più occasioni ho dato a Trezza 4-5 mila euro delle volte 10mila… una decina di volte... possono essere 15 volte… ogni tanto andavano e noi gli davamo queste cose qui… ma più del doppio non credo, magari 200 mila euro, tra 150 e 200 mila euro perché ripeto possono essere state 12-13 volte… ma siamo a questi livelli”.

NEL DICEMBRE del 2015 è scattata l’operazione: tra gli altri i carabinier­i hanno arrestato il boss Giovanni De Stefano e i suoi uomini di fiducia Vincenzino Zappia e Deme- trio Sonzogno, detto “Mico Tatoo”, che alla Cobar hanno imposto anche alcuni operai. “Almeno quattro – scrivono i magistrati – legati non a caso da un rapporto di parentela o di stretta contiguità, anche criminale”.

IL NOME DI BAROZZI, inoltre, è finito nelle carte della recente inchiesta “Cumbertazi­one”. Pur non essendo indagato, infatti, Barozzi è stato intercetta­to nel 2013 con l’imprendito­re di Gioia Tauro Francesco Bagalà, accusato di associazio­ne mafiosa e definito dagli inquirenti “punto di riferiment­o della cosca Piromalli”. Ritornando al restauro del Colosseo, la Co bar ha vinto l’ appalto come società mandataria del raggruppam­ento di imprese di cui fa parte anche la S.A.C. Spa, un’azienda romana che ha sede in via Barnaba Oriani e il cui titolare è Emiliano Cerasi, arrestato nell’operazione “Dama Nera 2” per corruzione e turbativa d’asta in concorso con alcuni dirigenti dell’Anas ai quali aveva consegnato una mazzetta di 10 mila euro per essere favorito nell’appalto per i lavori della Statale 260 Picente Dorsale Amatrice-Montereale-L'Aquila.

White list (o black?) Violato il codice degli appalti che impone di denunciare pizzo ed estorsioni L’altro socio All’Anfiteatro Flavio con Cobar anche Sac, il cui titolare è stato arrestato

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LaPresse/Ansa Consolidam­ento delle strutture ipogee e restauro: è questo l’appalto aggiudicat­o dalla Cobar. Sotto, i Bronzi di Riace

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