Il racconto dei “cattivi” Fo e Rame sul palco di Palazzo Barberini
IN MOSTRAAl Museo di Arte Antica di Roma, dal 24 marzo al 25 giugno, 150 opere dei due artisti. Un percorso di vita e creatività
L’archivio sarebbe impossibile da decifrare e tutto il materiale raccolto impossibile da contenere. Si tratterebbe eventualmente di catalogarlo: disegni, tele, foto, copioni, costumi, oggetti di scena, documenti, pupazzi, locandine, foto, arazzi.
FRANCA RAME e Dario Fo sul palcoscenico dell’esi sten za hanno messo in scena lo scibile e di solito quello che allo spettatore era dato vedere rappresentava solo il culmine del processo creativo. “Mio padre iniziò come pittore, all’Accademia. Poi lasciò la pittura perché gli faceva schifo il mercato delle opere d’arte”, spiega Jacopo Fo all’inaugurazione della mostra “Dario Fo e Franca Rame – il mestiere del narratore”. “Così per tutta la vita ha dipinto per trovare i personaggi delle sue opere o le scenografie degli spettacoli”, racconta ancora Jacopo. Procedendo nelle sale di Palazzo Barberini “appena restituite ai Beni culturali” – come spiega il ministro Franceschini –, lo spettatore si imbatte nelle marionette originali della famiglia Rame (perché è da lì che viene la sua arte: “Sentii mio padre dire a mia madre che per me era arrivato il momento di recitare, ero grande. Avevo tre anni”). E accanto, uno “schizzo” di Fo la immagina bambina per la prima sul palco. Alle prime locandine degli spettacoli, si affianca la storia burrascosa della Comune di Urbino. “Il sequestro e lo stupro della compagna Franca Rame”, che tanto scompiglio creò e a cui tanto devono le donne, cui lei lascia un monito in due righe: “Non fatevi mai mancare di ri- spetto”. A seguire, le storie “d’arte” di Fo, che è riuscito a indagare lo scibile, da “Caravaggio al tempo di Caravaggio”, a “La vera storia di Ravenna”. Insieme, poco più in là fanno il racconto della na- scita del figlio Jacopo e le “conseguenze” della maternità. Il racconto del padre e quello della madre. Neanche il tempo di riflettere su questo sconquasso e in fondo alla sala lo sguardo è necessariamente attratto dalle statue dell’allestimento delle opere teatrali; la difesa dei nativi americani, con “Storia proibita dell’America” e l’opera “La guerra di popolo in Cile” del 1973, il cui ricavato andò “alla lotta armata cilena”. Fino ai disegni che accompagnavano il discorso di ringraziamento alla consegna del Nobel per la Letteratura a Dario Fo, più eloquenti di qualsiasi paludata filippica recitata davanti all’Accademia. È il percorso narrativo accolto a Palazzo Barberini “perché in altri luoghi d’Italia i ‘cattivi’ non li volevano”, ridacchia Jacopo Fo. “Ho chia- mato varie persone, mi hanno sempre risposto che mi avrebbero richiamato”. Ma qui è la vita, anzi, due vite che testimoniano l’arte. Fin da quel primo incontro con la “dolce Franca”, che porta Dario Fo a teatro, quando mai l’avrebbe detto.
LO STESSO che riporterà Franca sul palco, dopo la breve parentesi cinematografica romana post-partum. La vita intera: dalla prima pagella del Nobel, ai manoscritti delle sceneggiature, le cartoline con le foto di Franca bambina, i documenti del vaglio della censura sulle opere teatrali dei due, i brogliacci scritti con i colori delle pièce. Un archivio senza regole stilistiche, indivisibile per categorie, eppure in grado di saltellare alla vista dello spettatore della mostra: a ognuno i suoi Fo-Rame. Mai solo memoria, ma parole e opere al servizio dell’attualità.