MINISTRO, OGGI ROMA È RESPONSABILITÀ SUA
Signor ministro Marco Minniti, ci conosciamo da tempo. Da quando ci confrontammo sulla questione albanese – quando Lei era sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, nel governo presieduto da Massimo D’Alema, e io presiedevo la commissione Affari esteri del Senato – il rischio di non capirci è inesistente (o quasi).
SALVAGUARDARE l’ordine pubblico, in occasione di eventi che determinano manifestazioni di massa, non è semplice. In democrazia, quale definita dalla nostra Costituzione, occorre conciliare il diritto dei cittadini di manifestare pubblicamente le proprie idee – solitamente non coincidenti con quelle del governo in carica, altrimenti perché scendere in piazza? – con il diritto, sempre dei cittadini, di non essere danneggiati da violenze, nelle persone e nelle cose. Questa duplice esigenza si ripresenta oggi in forma complessa e acuta in occasione della celebrazione del 60° anniversario dei Trattati di Roma, fondamento di un processo d’i n t egrazione di cui l’Italia è sempre stato uno dei motori. Sono presenti a Roma decine di capi di Stato e di governo, mentre sono stati autorizzati non pochi cortei di diverso orientamento.
Ci auguriamo che non capiti. Tuttavia, in occasioni come queste, è assai probabile che la salvaguardia dei diritti in gioco richiederà anche interventi da parte delle forze responsabili dell’ordine pubblico. Un governo che si definisce democratico conterrà e, ove, indispensabile, reprimerà i violenti e salvaguarderà il diritto di coloro, infinitamente più numerosi, che intendono manifestare pacificamente le loro opinioni. Purtroppo, da quando il mondo è mondo, non di rado il potere costituito reagisce in senso diametralmente opposto. Ordina o consente alla forza pubblica di permettere che i violenti si sfoghino creando le condizioni per una repressione che colpisce la maggioranza dei manifestanti, anche militanti ma ostili ad atti di violenza, con uno scopo politico: quello di produrre un risultato di violenza gene- ralizzata da cui – agli occhi di coloro che non sono presenti e che possono soltanto contare sui media per essere informati – le forze di polizia emergano come tutori dell’ordine e i manifestanti come sediziosi e violenti. Una divisione bipolare tra buoni e cattivi che non ammette distinzioni, nell’ambito degli schieramenti contrapposti, tra pacifici e violenti, ma che fa il gioco del potere costituito, interessato a confondere le posizioni dei manifestanti in un generale disordine, a profitto delle proprie tesi. Più o meno misteriosamente coloro che, con grande professionalità, iniettano violenza in manifestazioni altrimenti militanti, sfuggono alla repressione o all’arresto anche se, in epoca più recente, si presentano in divisa mascherata e risultano individuabili a occhio nudo oltre che in casellari che la polizia nazionale e internazionale avrebbe il dovere di tenere aggiornati. Fenomeni terroristici, presenti in forme variegate, aggravano ulteriormente uno scenario già cupo.
Nel nostro Paese i precedenti infausti, anche recenti, non mancano. È ancora fresca la memoria del G8 di Genova. Occasione in cui il nostro Paese si distinse negativamente in tutto il mondo civile, per il mancato contenimento dei black bloc e altri facinorosi, la macelleria messicana (l’espressione usata da un testimone di polizia) operata nei confronti di cittadini pacifici ed inermi alla scuola Diaz, la contraffazione di prove perché risultassero a loro carico, le successive torture inflitte a Bolzaneto e, malgrado gli sforzi egregi in senso opposto della magistratura genovese, il velo omertoso steso sui principali responsabili politici e amministrativi di quella sinistra vicenda.
PURTROPPO, sia pure in scala minore, tali modalità di comportamento dei responsabili dell’ordine pubblico si sono recentemente ripetuti, a Firenze e a Napoli, ove chi, come il sindaco, ha cercato di prevenire e contenere la violenza è finito sul banco degli imputati, gli arresti dei responsabili di violenza sono stati ridotti al minimo, e le cariche repressive si sono svolte con modalità tali da colpire principalmente chi esercitava il diritto costituzionale di manifestare la propria opinione. Se tale schema di comportamento dovesse ripetersi, in occasione degli appuntamenti romani, nessuno, tantomeno chi come Lei ha l’onere e l’onore di presiedere all’ordine pubblico di uno Stato democratico, può illudersi di sfuggire alla strict accountability, severo principio di responsabilità cui sono tenuti i detentori delle massime responsabilità politiche, di fronte ai cittadini – in questo caso – di un’Europa che ha ancora voglia essere democratica, pacifica e più unita.