Soldi agli editori per “licenziare” i post-giornalisti
“Senza libertà di espressione e di critica, il potere è libero di commettere i suoi soprusi, i suoi crimini e le sue ruberie”
(da “Crocevia” di Mario Vargas Llosa Einaudi, 2016 – pag. 214)
Èvero che i giornalisti, in Italia e in tanti altri Paesi, non godono oggi di buona stampa. Ed è pur vero che spesso questo accade anche per colpa loro. Per le loro carenze, per i loro errori.
Ma si può fare informazione, un’informazione professionale, al servizio dei cittadini, senza i giornalisti? Chi ha interesse a indebolire o abrogare questa categoria? E ammesso che prima o poi si arrivi alla loro estinzione, come quella dei dinosauri o dei panda, l’i nf o r ma z i on e sarà migliore o peggiore?
Negli ultimi anni, attraverso i vari governi che si sono succeduti, lo Stato ha versato un fiume di denaro agli editori dei giornali per i cosiddetti pre-pensionamenti. Soldi pubblici, insomma, per “licenziare” in pratica i professionisti più anziani. Senza assumerne però altrettanti, più giovani e magari meno costosi.
Facciamo un po’ di conti. A decorrere dal 2009, per effetto della legge sulle “Misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e impresa”, l’onere annuale di 10 milioni di euro sostenuto dall’Inpgi (Istituto nazionale previdenza giornalisti) per i trattamenti di pensione anticipata è stato trasferito a carico dello Stato. In seguito, questi stanziamenti sono progressivamente aumentati. Nell’arco di nove anni, dal 2009 al 2017, i contributi ammontano in complesso a 40 milioni nei primi quattro, a cui ne vanno aggiunti altri 156 fino a quest’anno. Totale 196 milioni.
LA SETTIMANA scorsa, infine, il governo ha approvato lo schema della nuova legge sull’editoria, elevando i requisiti di accesso ai pre-pensionamenti, ma stanziando ulteriori fondi per smaltire gli esuberi richiesti entro il 31 dicembre scorso. E per il 2017, sono previsti altri 45 milioni di euro.
È chiaro che questi contributi servono a contenere e contrastare la crisi dell’editoria, provocata dalla crisi economica globale e in particolare dalla concorrenza di tv e Internet. E se l’assunto di partenza è valido, cioè se l’informazione rappresenta un bene e un valore da tutelare, si tratta evidentemente di un sostegno necessario al pluralismo e alla libertà di stampa. Senza giornali, di destra, di centro o di sinistra, la democrazia è a rischio.
Ma, una volta erogati, questi soldi vengono spesi bene? Per rispondere alla domanda, bisognerebbe verificare i bilanci dell’Inpgi anno per anno. In ogni caso, si sa che tra il 2009 e il 2016 sono stati pre-pensionati circa 900 professionisti, destinati così a diventare post-giornalisti. Non si può dire, quindi, che finora i soldi pubblici siano serviti a salvare i posti di lavoro né tantomeno a crearne di nuovi, come denuncia legittimamente la Federazione nazionale della Stampa, il sindacato di categoria guidato dal segretario Raffaele Lorusso.
Ecco, allora, una proposta concreta e costruttiva. Perché non estendere anche alle società private, oltre un certo volume di fatturato, l’obbligo – già previsto dalla legge n. 150 del 2000 per le amministrazioni pubbliche – di assumere nei proprio Uffici stampa almeno un giornalista professionista? Non si tratta di una proposta corporativa, per difendere solo l’occupazione. Si tratta piuttosto di garantire una maggiore trasparenza, correttezza e professionalità della comunicazione nei confronti dei cittadini. Il sistema dell’informazione ne guadagnerebbe in termini di autonomia e indipendenza, a vantaggio dell’intera opinione pubblica.