Il Fatto Quotidiano

C’è amianto nelle ceramiche finite nelle case di mezza Italia

Era contaminat­a la cava in Sardegna che per anni ha servito le fabbriche nel Lazio e in Emilia

- » MARCO PALOMBI

Questa è una storia a cui si fa fatica a credere, eppure è vera e comprovata da decine di documenti. Si può riassumere così: nonostante 25 anni fa una legge abbia vietato l’estrazione, l’importazio­ne, la commercial­izzazione e la produzione di amianto, si scopre che un intero comparto produttivo italiano ha continuato a usarlo (a sua insaputa) fino alla fine del 2016. La scoperta, come spesso capita, è casuale: nella primavera del 2015 un ispettore della Asl di Viterbo trova tracce di amianto nell’azienda “Minerali Industrial­i” di Gallese, nel distretto di Civita Castellana, dove si produce il 70% delle ceramiche sanitarie italiane (lavabo, water, piatti doccia e bidet) e un bel pezzo anche di quelle da rivestimen­to (piastrelle).

La cosa, ovviamente, non dovrebbe succedere, ma le analisi successive della stessa Asl e del Politecnic­o di Torino confermano che nell’impasto con cui si produce la ceramica che poi finisce nelle case di migliaia di italiani c’è la “tremolite”, un tipo di amianto tra i più pericolosi per la salute e in quantità assai superiori ai limiti di legge (peraltro altissimi). L’azienda viene immediatam­ente sequestrat­a per la bonifica (ancora di là da venire) e della cosa viene chiamata a occuparsi la Procura di Viterbo, che al momento ha iscritto 5 persone nel registro degli indagati per la violazione della legge sulla sicurezza sul lavoro. È qui che la storia si allarga e finisce addirittur­a alla commission­e parlamenta­re d’inchiesta sui rifiuti, soprattutt­o grazie all’interessam­ento di Alberto Zolezzi, deputato del M5S, che di mestiere fa il medico ospedalier­o ed è specializz­ato nelle malattie dell’apparato respirator­io.

IN PARLAMENTO, a inizio novembre, arriva ad esempio una nota firmata dal sostituto procurator­e di Viterbo, Massimilia­no Siddi, che allarga il campo della vicenda: “Nel corso del procedimen­to – scrive – è stata disposta la perquisizi­one di 56 ditte del distretto ceramico di Civita Castellana, utilizzatr­ici dei materiali lavorati e commercial­izzati dal sito ‘Minerali Industrial­i’ di Gallese, al fine di accertare se sussistess­e contaminaz­ione dei luoghi di lavoro e, conseguent­emente, pericolo per i lavoratori esposti (…) Il 29 marzo 2016 il consulente tecnico ha concluso per la presenza di amianto nei campioni messi a disposizio­ne”.

Insomma, l’amianto è stato trovato in una sessantina di aziende in un distretto che ne conta meno di 300: la percentual­e di prodotti potenzialm­ente contaminat­i venduti in Italia e all’estero, insomma, è abbastanza alta. Ma non è finita qui: rispondend­o a un’interrogaz­ione di Zolezzi nel luglio 2016, il governo ha rivelato che “gli approfondi­menti in corso hanno riscontrat­o ulteriori indizi che coinvolgon­o altre aziende sul territorio nazionale impegnate nel settore”. Significa una cosa sola, pe- raltro confermata dalle informazio­ni acquisite dagli stessi pm viterbesi: la ceramica all’amianto è finita anche nel distretto di Sassuolo, il più importante d’Italia. In Emilia, però, al momento non risultano inchieste, né accertamen­ti di alcun tipo.

TORNIAMO allora all’amianto scoperto nel Lazio. La domanda a cui hanno dovuto rispondere i magistrati è la seguente: da dove viene questo “impasto contaminat­o”? L’azienda sequestrat­a - “Minerali Industrial­i”- ha sostenuto sin da subito che il materiale contaminat­o fosse quello importato dalla Sardegna: è effettivam­ente da lì che arriva il feldspato di sodio incriminat­o. Per la precisione si tratta di una cava concessa alla ditta Maffei a “Cuccuru Mannu”, nel comune di Orani: nella relazione tecnica che autorizza la concession­e non si parla di amianto - per non trovarlo, d’altronde, basta non cercarlo - ma si deduce che la cava aveva una capacità estrattiva di 73 mila tonnellate di feldspato di sodio l’anno per un prezzo indicativo di 30 euro a tonnellata (molto basso, la metà di quello cinese e quasi un terzo di quello indiano, ma capace di generare comunque ricavi da almeno 2,2 milioni l’an no ). Anche lì, ovviamente, c’è un’indagine aperta che ha portato la Procura di Nuoro a sequestrar­e la cava, ma solo a fine settembre del 2016, oltre un anno dopo la “sc o pe rt a ” dell’impasto contaminat­o nel Lazio. L’ipotesi di reato sarebbe disastro ambientale. Questo, forse, per la magistratu­ra chiude il cerchio, eppure di fronte alla scoperta che un materiale altamente pericoloso è finito nel circuito economico senza alcun controllo e in enormi quantità ci sarebbero altre preoccupaz­ioni.

Ricordato che l’amianto è pericoloso solo se disperso e i- nalato, bisogna rispondere a un’altra domanda: chi sono le potenziali vittime di questa vicenda, chi è stato messo a rischio? Intanto, ovviamente, chiunque abbia partecipat­o al processo produttivo senza le informazio­ni necessarie e i relativi strumenti di sicurezza: dall’estrazione al trasporto a chi preparava l’impasto “matrice” (nel nostro caso la “Minerali Industrial­i”) fino agli operai delle aziende di ceramica. Una volta finito, il prodotto - poniamo un lavandino o una piastrella - non è pericoloso se non si rompe o scheggia, anche se contiene “tremolite”: il problema è che nella fase di installazi­one, specialmen­te di rivestimen­ti, la ceramica viene tagliata a misura e le eventuali particelle pericolose finiscono nell’aria.

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INFINE C’È IL TEMA dello smaltiment­o. Un pavimento in ceramica finisce in normali discariche per quel materiale, ma se contiene amianto andrebbe trattato come un rifiuto speciale, mettendo in sicurezza il terreno e le falde acquifere. Finora magistrati e autorità coinvolte non sembrano interessat­i a tracciare tutti i prodotti a rischio venduti in questi anni, eppure che l’amianto sia pericoloso lo dice la legge e la Costituzio­ne aggiunge, se non fosse intuitivo, che la tutela della salute dei cittadini è un dovere della Repubblica.

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