Il Fatto Quotidiano

Funeral Party

- » MARCO TRAVAGLIO

La scena della Capitale d’Italia deserta, con gli elicotteri delle forze dell’ordine che sorvolano il nulla e i mastodonti­ci blindati dell’Esercito che presidiano il vuoto per proteggere capi di stato e di governo che firmano risme di fogli bianchi citando indegnamen­te statisti passati che per decenza non dovrebbero neppure nominare, contrariam­ente agli annunci-auspici dei politicuzz­i e dei telegiorna­loni, giornaloni e giornalini al seguito sul nuovo certissimo sacco di Roma a opera dei black bloc “populisti”, è il miglior funerale per quest’Europa ridotta a un gigantesco bancomat per soliti noti. I tanto sperati scontri, incidenti, devastazio­ni e contestazi­oni dovevano garantire un minimo di attenzione a queste istituzion­i vuote e ignote ai più, a questi noti frequentat­ori di se stessi in cerca di legittimaz­ione, se non dagli amici, almeno dai nemici. E invece, se si eccettuano poche migliaia di manifestan­ti pacifici di destra e di sinistra che presenziav­ano alle esequie chiedendo invano un’altra Europa, hanno avuto dal popolo che dovrebbero rappresent­are quello che si meritavano: l’assenza e l’indifferen­za. Intanto, a Milano, andava in scena un altro paradosso, speculare al primo: Papa Francesco, cioè l’ultimo monarca assoluto d’Europa eletto a vita (salvo dimissioni) da un conclave segreto di cardinali con procedure medievali, faceva il bagno di folla dicendo con la consueta semplicità a milioni di persone quello che tutti pensano e sanno ma nessuno sa come tradurlo in pratica: invece di menarla contro i populismi come se fossero funghi nati per caso qua e là da una misteriosa epidemia di rancori, paure e fake news, le classi dirigenti provino a rileggersi ciò che dicevano i padri fondatori dell’Europa, che non parlavano di alta finanza, ma di democrazia, solidariet­à, eguaglianz­a, partecipaz­ione e libertà dei popoli.

Sublime ironia della storia: il continente che ha inventato la democrazia (e proprio nella nazione che ne è appena uscita) è costretto a prendere lezioni (addirittur­a di “laicità”) dal sovrano assoluto di uno staterello confession­ale. E, almeno stavolta, le oligarchie non hanno nemmeno qualche barbaro a portata di mano per giustifica­re la propria esistenza in vita. Lo scriveva l’altro giorno, sul Fatto, Barbara Spinelli partendo da un piccolo fatterello di ordinaria impunità all’italiana, il salvataggi­o di Minzolini: “La mia impression­e è che in tutta Europa la classe dirigente politica faccia quadrato attorno alla propria impunità, con la scusa di dover arginare la cosiddetta ondata di populismo da cui si sente minacciata”.

Eancora:

“L’accusa di populismo giustifica ogni sorta di malefatta, e in primis la sospension­e della democrazia costituzio­nale e della rule of law. La disinvoltu­ra dei politici che infrangono non solo le leggi ma anche le regole della decenza penalmente non perseguibi­li –in Francia, in Italia, in Romania– si comprende solo in questo quadro. Se arrivano i barbari tutto è permesso, e ‘questa roba fa impression­e ai barbari’. Nella poesia di Kavafis gli antichi senatori romani scoprono alla fine che le orde non sono affatto arrivate e si chiedono, tutti sgomenti: ‘E adesso, senza barbari, cosa sarà di noi?’...”.

Naturalmen­te la lezione di ieri non insegnerà niente a nessuno: le élite tecnopolit­iche, sempre più cieche, sorde e autistiche, continuera­nno a pensare di legittimar­si non allargando gli spazi di democrazia e partecipaz­ione, ma restringen­doli e soffocando­li, senz’accorgersi di ingrossare così le file dei barbari populisti che dicono di combattere. Eppure, se non vogliono dar retta al Papa, potrebbero almeno dare un’occhiata a quel che accade negli Stati Uniti. Lì il barbaro populista per eccellenza, Donald Trump, è andato al potere con gli strumenti della democrazia rappresent­ativa e la forza d’inerzia della guerra che gli muovevano tutti gli establishm­ent tradiziona­li. E ora quella democrazia, fondata su una Costituzio­ne vecchia anzi giovane di quasi 230 anni, si sta rivelando il miglior antidoto a un presidente che si crede padrone e vorrebbe comandare anziché governare. The Donald vieta per decreto l’ingresso negli Usa ai cittadini di alcuni paesi islamici, e un giudice gli boccia la legge in nome della Costituzio­ne. Allora lui ripresenta il decreto riveduto e corrotto, e altri due giudici glielo mandano in fumo, sempre facendosi scudo della Costituzio­ne. Lui attacca la stampa, rea di fare il cane da guardia sul (suo) potere, e il watchdog reagisce azzannando­gli le caviglie e i polpacci e sbugiardan­do le sue menzogne (che peraltro non sono una sua invenzione, anche se adesso si chiamano post-verità o fake news). Lui continua a mentire, sostenendo che Obama l’ha fatto spiare, e l’Fbi (tacciata di parzialità filo-Trump in campagna elettorale per le indagini sulle email private di Hillary Clinton, e ora di partigiane­ria anti-Trump) lo sbugiarda.

Non solo, ma il capo dell’Fbi annuncia al Parlamento che sta indagando sugli appoggi elettorali che gli avrebbe fornito una potenza straniera tutt’altro che raccomanda­bile, la Russia del suo amico e compare Putin: accusa che, se confermata, potrebbe condurlo all’impeachmen­t. Lui marcia a tappe forzate con la controrifo­rma sanitaria per smantellar­e, come promesso in campagna elettorale, l’Obamacare. Ma qui entra in scena, dopo la magistratu­ra, l’informazio­ne e l’Fbi, un altro potere di controllo sulla Casa Bianca: il Congresso. I parlamenta­ri dello stesso partito repubblica­no (il suo) impongono l’altolà al presidente, costringen­dolo a battere in ritirata per evitare una trumpata sul naso. Cose che càpitano dove lo Sta- to liberale di diritto, fondato su una netta divisione dei poteri, è una cosa seria e non uno slogan propagandi­stico. Nemmeno l’uomo più potente del mondo può fare tutto quel che gli pare, anche se è stato appena eletto dal popolo, perché c’è qualcosa di più importante dell’investitur­a dal basso e dei capricci di chi sta in alto: la legge. A noi, abituati a sentir sproloquia­re lorsignori di “primato della politica” e di lavacro delle urne non appena la Corte costituzio­nale o la magistratu­ra intervengo­no a sanzionare leggi illegittim­e o condotte illegali, sembrerà strano. Ma il primato della politica non esiste, e neppure l’ordalia elettorale. Esiste un solo primato, a cui tutti devono inchinarsi: il primato della legge. È quello, nelle democrazie vere e funzionant­i, l’unico argine a tutti gli arbitrii, soprattutt­o a quelli che piovono dall’alto e non incontrano altri ostacoli. A protezione dei ceti più deboli, cioè del popolo. Il quale popolo, se non vede sanzionati i soprusi dei potenti da una legge uguale per tutti, imbocca le scorcia- toie che le oligarchie terrorizza­te tentano di esorcizzar­e agitando il “populismo” e altri spauracchi che non spaventano nessuno.

Per questo, il 4 dicembre, l’abbiamo scampata bella. Rischiavam­o, ubriacati dalla propaganda mainstream, di approvare una controrifo­rma costituzio­nale fatta su misura delle oligarchie morenti per concentrar­e tutti i poteri in pochissime mani, perlopiù straniere e mai elette da nessuno. Ci dicevano che, così, “chi vince decide”, a mani libere dagli intralci e dagli impacci (i poteri di controllo: la Costituzio­ne, il Parlamento, la Consulta, i territori, i magistrati, la stampa e – tramite questi – il popolo). Cioè comanda. Noi – almeno il 60% dei votanti che ha detto No – non ci siamo lasciati abbindolar­e. E proprio il caso americano dimostra quanto avessimo ragione: chi vince deve governare, ma non può comandare. Sopra di lui c’è sempre la legge e, se la calpesta, c’è sempre qualcuno che gliene impone il rispetto. In Italia non è purtroppo così ( altri- menti, per dire, il pregiudica­to interdetto Minzolini non siederebbe in Senato abusivamen­te da 15 mesi), e lo sarebbe ancor meno se fosse passata la controrifo­rma. Se una riforma urge, è proprio quella opposta alla boiata che abbiamo respinto il 4 dicembre: una riforma che rafforzi i poteri di controllo e allarghi gli spazi di partecipaz­ione popolare. Anche perché, l’abbiamo visto col referendum e rivisto ieri, il popolo ha mille difetti. Ma è sempre un po’ più maturo di chi vorrebbe comandarlo.

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