CHE FINE HA FATTO L’ALTRA ITALIA?
Èun’Italia anomala, vogliosa di portare il mondo in casa, orgogliosa e insieme umile, non conformista, non autoritaria, un’Italia di uguali”, scrive Corrado Stajano ( Corriere della Sera, 24/3) in un articolo dedicato al libro di Alberto Saibene ( L’Italia di Adriano Olivetti, Edizioni di Comunità). Entrambi, il giornalista in veste di critico, e lo scrittore in veste di storico, tengono l’orizzonte largo, l’inquadratura aperta, come Kubrick all’inizio di Barry Lyndon( da un vastissimo panorama al primo piano di un volto).
Nella inquadratura larga di entrambi si vede un’Italia che non assomiglia a niente. Accanto alle pagine di Stajano e Saibene, trovo per caso una copia del New York Times (20/3) che ha questo articolo in prima pagina: “Chi è Anna Frank e perché i ragazzini del mondo non la conoscono?” L’autrice ( Nina Siegal) racconta di essersi trovata in mezzo a una scolaresca di bambini canadesi davanti alla casa di Amsterdam, divenuta museo in cui, per alcuni mesi, la famiglia Frank aveva trovato rifugio, e di avere ascoltato un incrocio di storie diverse, disorientate e senza contesto, come se fosse scesa una nebbia su una intera epoca della storia. Ma quella nebbia che ci impedisce di capire che cosa è avvenuto prima, non si dirada intorno agli eventi contemporanei che stiamo vivendo, e ci permette di vivere nel tempo e nello spazio di persecuzioni disumane, come se fossero storia passata con cause non molto chiare e comunque inevitabili.
È una buona idea che Corrado Stajano abbia tenuto larga l’inquadratura del suo articolo. In modo che si parli soprattutto di una strana e irriconoscibile Italia “di allora” che è la vera protagonista anche del libro. Infatti il testo di Saibene è un frammento molto accurato (e per molti versi sorprendente) della storia d’Italia in cruciali anni di transizione. Entrambi gli autori sono scrittori che si assumono la responsabilità di testimoniare qualcosa che poteva restare nella nebbia e confondersi nella memoria di tanti. Stajano, lo storiografo dell’“eroe borghese” Ambrosoli, ha spinto in una chiara zona di luce qualcosa che, da allora non si può più ignorare: c’è, in I- talia, chi muore per onestà. Saibene ha fatto in modo che Adriano Olivetti apparisse non un buono o un benefattore, ma un intellettuale intelligente che vede il futuro, perché capisce che il futuro non è una visione magica ma una deduzione logica, date le promesse della tecnologia, a cui Olivetti si dedica (era già arrivato al personal computer, negli Anni 60) perché vede il legame con l’innovazione sociale.
VEDE CHE LA GARA non è fra uomini e cose, e – alla fine – fra uomini e robot. Ma fra chi può e vuole diffondere il benessere lungo un vasto percorso orizzontale, che raggiunge e include sempre più esclusi, e un altissimo totem verticale che allunga di giorno in giorno la distanza fra il più povero e il più ricco. E dunque sposta in alto e lontano anche il ruolo di chi (sempre più solo) comanda. Resta da capire il modo e il momento in cui è calata la nebbia, e un mondo che sembrava essersi dato alcuni impegni nobili, si è trovato ad essere cupo e peggiore, disposto a non sapere e pronto, di nuovo, a uccidere. Ci sono due punti di frattura tra la fine del millennio e l’inizio di un altro. Diventano subito traumi profondi, che fanno alzare la nebbia e perdere la memoria. Il primo è l’inizio di una nuova lotta di classe. È la lunga lotta contro il lavoro, a cui bisogna togliere, verso la fine del secolo scorso, tutto ciò che il lavoro aveva conquistato per decenni, dalle cure mediche all’orario di lavoro. Tutto vuol dire tutto e la lotta accanita per strappare dignità al lavoro è in corso ed è programmatica, non conseguenza fatale di cambio dei tempi o di risorse stranamente finite. La seconda, profonda e devastante, riguarda il soccorso agli esseri umani. Fra solidarietà e repulsione si è creato un abisso che nessuno aveva previsto tanto vasto e tanto profondo.
Tutto sembrava derivare, all’inizio della faglia, da radici culturali residue di un brutto passato e addirittura si è creduto (per poco) che la repulsione, a costo di uccidere, riguardasse una barbara minoranza, l’inspiegabile lascito di un’epoca finita. Chi aveva questa speranza, ha dovuto ricredersi molto presto. Il disprezzo per i profughi, per i rifugiati, per gli spossessati, per chi è stato spinto alla fuga da guerra e fame è apparso solido, poi esteso, poi contagioso, e adesso governa quasi dovunque. Queste due spaccature hanno devastato sentimenti, movimenti, percezione, giudizio, al punto da creare una falsa ed estesa rappresentazione dei fatti.
È diffusa la persuasione che il lavoro sottomesso e l’immigrazione negata siano le vie di salvezza di una nuova, presunta civiltà. In questa nebbia si vedono poco e si dimenticano volentieri i testimoni – costruttori di un futuro che non è mai arrivato. Stavano per mettere in salvo il tesoro della civiltà come solidarietà, una religiosità laica che non avrebbe lasciato spazio alla solitudine della corruzione. Non sono arrivati. In tempo.