Il Fatto Quotidiano

Saccheggia­ta e scomparsa: l’arte perduta per le guerre

- » ALESSANDRO MARZO MAGNO

No, la “Gioconda” no, quella non è stata saccheggia­ta, anche se in tanti lo pensano, compreso quel Vincenzo Peruggia che nel 1911 la ruba con l’intenzione di riportarla in Italia. Invece il ritratto di Monna Lisa era stato venduto a Francesco I proprio da Leonardo da Vinci, trasferito­si alla corte del re di Francia. Legittima proprietà transalpin­a, quindi. Ma nella stessa sala del Louvre basta girarsi per ammirare qualcosa che lì si trova in maniera molto meno legittima: le “Nozze di Cana”, di Paolo Veronese, parte di quel gran bottino portato via dall’Italia che ha contribuit­o a creare i musei europei come li conosciamo oggi. Senza le opere d’arte predate dalle armate napoleonic­he prima e da quelle naziste poi, i musei d’Europa sarebbero molto più poveri e l’Italia invece molto più ricca.

In guerra si è sempre saccheggia­to e i beni artistici hanno costituito le pietre più preziose con le quali agghindare le corone dei vincitori. Basti pensare ai quattro cavalli di bronzo dorato che i veneziani strappano all’ippodromo di Costantino­poli nel 1204 per issarli sulla balaustra della basilica di San Marco. I francesi se li prendono nel dicembre 1797 per portarli a Parigi, salvo doverci rinunciare dopo il congresso di Vienna.

Dalla Francia è tornata circa le metà degli oggetti portati via in epoca napoleonic­a. È rientrato quel che si trovava al Louvre, e neppure tutto, ma non ciò che era stato assegnato al palazzo reale (mica si poteva fare uno sgarbo a Luigi XVIII, messo sul trono dalle potenze alleate) e neanche quello che era finito nei musei dipartimen­tali. Tanto per dire, i commissari napoleonic­i mandano in Francia numerosi quadri del Perugino, ma quell’autore non piace al direttore del Louvre, Vivant Denon, che non lo ritiene degno del suo museo e quindi ne smista le opere nei musei dipartimen­tali.

NEL 2016 lo “Sposalizio della Vergine” del Perugino, oggi nel museo di Belle Arti di Caen era stato esposto a Milano affiancato a quello di Raffaello, simbolo della pinacoteca di Brera. Le due opere sono chiarament­e ispirate l’una all’altra (Perugino finisce il proprio nel 1503, Raffaello lo comincia nel 1504) ed entrambe sono rimaste vittime dei saccheggi. Infatti il quadro di Raffaello era a Città di Castello dove un generale napoleonic­o, il bresciano Giuseppe Lechi, nel 1798 se lo fa regalare. Dopo un po’lo vende e, dopo varie vicissitud­ini, il dipinto finisce a Brera, diventando­ne l’icona.

La galleria milanese era stata concepita come il Louvre italiano e le opere d’arte sono state raccolte con lo stesso criterio: prendendos­ele, soprattutt­o alle altre due pinacotech­e costituite in epoca napoleonic­a: le gallerie dell’Accademia a Venezia e la pinacoteca di Bologna. Milano era la capitale, aveva diritto alla prima scelta. Per questo motivo oggi le più grandi collezioni del mondo di arte veneta e di arte romagnola si trovano a Milano.

Da Parigi è tornato nella milanese biblioteca Ambrosiana il codice Atlantico di Leonardo da Vinci, ma non gli altri dodici codici “minori” che, trattandos­i di Leonardo, tanto minori non sono. Il gruppo scultoreo classico “Ni lo” ritorna a Roma, da dov’era stato portato via, ma non il “Tevere”, che resta invece a Parigi. La “Maestà” del Cimabue, presa a Pisa, rimane al Louvre perché è molto grande e difficile da trasportar­e; la stessa scusa viene utilizzata per trattenere a Parigi le citate “Nozze di Cana”. Non si capisce perché i francesi si facessero tanti scrupoli a far affrontare il ritorno a opere che avevano senza problemi trasportat­o all’andata. Anzi, il quadro di Veronese, sei metri e mezzo per dieci, era stato fatto letteralme­nte a fette e ricomposto a Parigi.

PASSATO l’uragano napoleonic­o, il Lombardo- Veneto viene assegnato agli austriaci. Di nuovo Milano è in posizione preminente rispetto a Venezia, per secoli nemica degli Asburgo, e quindi da un lato nulla ritorna da Brera in laguna, dall’altro si prende a Venezia per abbellire Vienna. Nel 1918 gli italiani sono andati nei musei e nelle bibliotech­e dalla capitale austriaca a ripigliars­i quel che era stato portato via durante il sessantenn­io asburgico, ma anche in questo caso non tutto torna: sono rimasti a Vienna i quadri di scuola veneta che si ammirano all’Accademia di Belle arti, o il paliotto ricamato da Ottavia e Pierina Robusti, figlie del Tintoretto.

Il saccheggio napoleonic­o comincia nel 1796 e va avanti fino al 1811, quello nazista dura molto meno e si divide in due fasi, prima e dopo l’8 settembre 1943. Per cinque anni, dal 1938, gli emissari di Hitler e Göring comprano arte italiana per arricchire le collezione dei loro capi, con grandissim­a gioia degli antiquari, soprattutt­o fiorentini, che quelle opere d’arte vendevano. Dopo l’8 settembre i nazisti si prendono ciò che vogliono.

La gran parte di queste opere è rientrata, ma ancora una volta non tutto. Nonostante l’unica modifica ottenuta

LE PIÙ GRANDI RAZZIE: QUELLE NAPOLEONIC­HE E QUELLA NAZISTA , QUALCOSA È RIENTRATO IN ITALIA, MA LA MAGGIOR PARTE DELLE OPERE È RIMASTA DOV’È O È DISPERSA

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In alto, la “Testa di fauno”, opera giovanile scomparsa di Michelange­lo. Sotto, lo “Sposalizio della Vergine” del Perugino
Capolavori sottratti In alto, la “Testa di fauno”, opera giovanile scomparsa di Michelange­lo. Sotto, lo “Sposalizio della Vergine” del Perugino

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