Il Fatto Quotidiano

“Sono un orso: al grande calcio preferisco il Casale in serie D”

Ezio Rossi “Ho smesso di aspettare panchine: dovevo tornare a Torino, mia moglie era in aspettativ­a e serviva uno stipendio in casa”

- » STEFANO CASELLI

L’espression­e rituale del suo viso assomiglia a quella di un orso appena svegliato dal letargo. Eppure, se il calcio è ancora una bella storia, è perché esistono ancora gli Ezio Rossi: difensore di buon livello dagli Anni 80/ 90, poi allenatore specialist­a in promozioni, ha assaggiato anche le panchine di seria A. Oggi siede su quella del Casale, i gloriosi nerostella­ti che – a dispetto della gloria – languivano tra i dilettanti e ora hanno riguadagna­to il primo gradino del profession­ismo, la serie D che stanno difendendo. Rossi, lei ha allenato in serie A. Poi ha deciso di farsi da parte dal “grande” calcio. Una scelta o una naturale deviazione della carriera? Una via di mezzo. Ho un grosso difetto, non so sfruttare le rendite di posizione al momento giusto Quando arrivi a certi livelli è naturale allacciare molti rapporti che ti aiuti a stare a galla. Io invece ho tenuto tutti lontano. Così al primo anno storto, niente panchina. Dopo l’esonero dal Treviso in serie A, mi chiamò il Grosseto di Camilli. Altro che Zamparini, andare lì significav­a avere già in tasca il foglio di via. Poi arrivai a Gallipoli, il Gallipoli della disperazio­ne, acqua e detersivi pagati dai tifosi. Ho smesso di aspettare panchine: dovevo tornare a Torino, mia moglie era in aspettativ­a e uno stipendio in casa non poteva mancare. Così ho ricomincia­to dal basso. Pensa di aver pagato qualcosa?

La mia incapacità di leccare culi. Per tornare in alto bisogna vincere. E comunque la stessa storia l’ho vissuta da calciatore. Cacciato dal Toro, giocai tre bellissime stagioni a Verona, pieni di difficoltà, poi fui spedito a Mantova dove sfiorammo la promozione in B, ma la società

era allo sbando. Così a 32 anni andai al Legnago tra i dilettanti. Poi il Treviso, tre promozioni di fila dalla C2 alla B. Il calcio “minore” è una parentesi?

Quando torni tanto in basso è difficile risalire. Ma sono orgoglioso di essere controcorr­ente. Le persone che mi conoscono lo sanno e spero apprezzino… Orgoglioso?

Quando ero disoccupat­o ho fondato una scuola calcio gratuita in un oratorio, ho allenato una squadra di rifugiati politici. Due di loro, arrivati in gommone a Lampedusa, me li sono portati a Casale… Di questo sono orgoglioso, anche se una cosa è francament­e irraggiung­ibile… Quale?

Quel gol alla Juve...

(Ezio Rossi ride. Nei suoi occhi scorre il film di quella sera, 6 aprile 1988, derby in semifinale di coppa Italia. Piove a di- rotto su Torino, piove sui 35 mila del vecchio Comunale. Giorgio Bresciani avanza palla al piede sulla trequarti. Assist a centro area al liberissim­o Gritti che –nonostante la posizione favorevole – appoggia una palla alta indietro, al limite. Rossi è lì e – sgraziato come solo lui sapeva essere – s’inventa una semirovesc­iata al volo di sinistro nonostante l’equilibrio precario. Palla all’incrocio, gol, due a zero. Rossi non ci crede, mani sulla faccia, corsa forsennata verso la Maratona. Il Toro andrà in finale e – ovviamente – perderà la coppa all’ultimo minuto del secondo tempo supplement­are nella partita di ritorno ritorno contro la Sampdoria)..

Fa a uno strano effetto sentire la sua storia, proprio nei giorni in cui i “g ra n di ” club di A sbattono la porta in Lega.

Il grande calcio è malato, per colpa di chi lo ha gestito. Gli stadi vuoti sono desolanti, la tv (quello che interessa alle “gra ndi”) ha portato via tutto, ha tolto valore ai campionati minori. Ma uccide anche la serie A. Ho visto Bologna-Chievo con il Da ll ’ Ara deserto. Chi governa il calcio dovrebbe farsi qualche domanda, invece continua a votare gli stessi, esattament­e come in politica. Tutti si lamentano, perfino i dirigenti. Ma se ti lamenti poi che fai? Rivoti Tavecchio, lecchi il culo e mantieni la poltrona.

Torniamo a Torino. Lei è nato a due passi dal Filadelfia, il mitico stadio, è cresciuto nel Torino e in granata è diventato adulto. Nel calcio di oggi non c’è più spazio per queste storie?

Ho avuto la fortuna di non aver mai fatto un lavoro vero, però la riconoscen­za, nel calcio, non te la devi aspettare. Il calcio è fatto di presente… Lo dico anche ai miei ragazzi, non aspettatev­i riconoscen­za. O meglio, non dagli addetti ai lavori, semmai dalla gente.

Ho allenato il Toro nel periodo più sfortunato della storia, ma tra me e i tifosi non è cambiato nulla. Mi scrivono ancora quelli della Triestina, che per poco riportai in serie A. Ma questo è importante per me, non per i miei datori di lavoro. Tra quelli molto fortunati, i lavoratori del mondo del calcio sono i più precari. 31 ottobre 1982, esordio in serie A… Fiorentina-Torino, zero a zero, mancano otto minuti alla fine. La Fiorentina attacca e, come spesso accadeva, Passarella (difensore capace di segnare 165 gol in carriera, ndr) si butta all’attacco. Bersellini mi chiama: “Rossi, tocca a te. Entra e marca a uomo Passarella”. Dovevo stare addosso al loro libero per tenere lo 0-0, per fortuna ci riuscimmo. Fu una grande emozione: sono fiero di essere l’unico nella storia nato a Torino, granata da sempre, ad aver giocato ed allenato il Toro.

Il ricordo più bello in campo?

Oltre al gol alla Juve, aver vinto un campionato di serie B a 21 anni, a Lecce, La prima storica promozione in serie A.

E quello in panchina?

La promozione in B con la Triestina nel 2012.

Il più forte contro cui ha giocato?

Van Basten. Non riuscivi neanche a menarlo.

Il miglior allenatore?

Dal punto di vista tattico non ho dubbi: Luigi Manganotti del Legnago. E guardi che non scherzo. Ho avuto un ottimo rapporto con Fascetti, tanto che tutti pensavano fossi il suo figlioccio… Eravamo insieme a Lecce, sono stato io a suggerirlo al Torino quando retrocedem­mo in B nel 1989, lo portai io a Verona dopo che entrambi fummo cacciati dal Toro. Ma ci dicevano tre parole all’anno, però c’era stima reciproca, forse perché eravamo due orsi.

Un giocatore che è fiero di aver lanciato?

Balzaretti. Era un po’ come me, faceva sempre il doppio degli altri. Era destro ed è diventato sinistro, si è irrobustit­o… L’ho voluto io al Torino nel 2004, era già dell’Alessandri­a È arrivato in Nazionale. In questi giorni si celebrano gli 80 anni di Carlo Mazzone… Le ricorda qualcosa, per esempio Lecce-Torino ’89? Il momento peggiore della mia carriera, il Toro in B. Allora era inconcepib­ile.

L’anno dopo cavalcata in B. A fine primo tempo, a Torino, venivano negli spogliatoi a chiedere che ci fermassimo. Solo il Pescara, forse, non lo fece, e finì 7-0.

Quella squadra arrivò praticamen­te in finale di coppa Uefa nel ’92. Purtroppo non ci fu più spazio per Rossi… Una brutta storia, ma sono passati più di 25 anni. Torniamo al Casale, non solo una gloriosa società, ma anche la squadra di una città martire dell’amianto… Non vivo a Casale, ma so bene cosa significhi per Casale l’Eternit. Recentemen­te si sono ammalate due persone che ci davano una mano al campo. In Italia tante città vivono un momento di depression­e sociale ed economica, ma qui mi sembra più accentuata. E l’esito in Cassazione dei processi di Torino non ha fatto che aumentare la rabbia.

ALLENATORE IN SERIE A E IN SERIE B Pago la mia incapacità di leccare culi: così ai primi ko, niente squadra. La stessa storia vissuta da calciatore

STUFO DI ASPETTARE PANCHINE

Da disoccupat­o ho messo su una squadra di rifugiati Ma la cosa di cui vado più fiero è quel gol alla Juve... Ho avuto la fortuna di non aver mai fatto un lavoro vero, ma tra i molto fortunati, noi siamo i più precari Mi scrivono ancora i tifosi del Toro e quelli della Triestina: la riconoscen­za non è cosa da addetti ai lavori

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Ezio Rossi, terzo da destra in piedi, Nel Toro che quell’anno scese clamorosam­ente in B
LaPresse Il “maledetto” 1989 Ezio Rossi, terzo da destra in piedi, Nel Toro che quell’anno scese clamorosam­ente in B
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