L’Arci ha sessant’anni La sinistra che festeggia se li porta davvero male
N’associazione che dichiara 1 milione di iscritti, 8 correnti politiche in cerca di voti
L’intento è nobile, il risultato un po’ meno. L’Arci festeggia i 60 anni della sua attività associativa e riunisce tutte – ma proprio tutte – le schegge piccole e meno piccole della sinistra politica italiana. Si trovano insieme sullo stesso palco, quello del teatro Orione di Roma, tra strette di mano, sorrisi e applausi di circostanza.
INSIEME alle sessanta candeline, i numeri di Arci sembrano mostrare che fuori dai palazzi, una parte della società “progressista” è ancora in discreta salute, e persino in grado di trovare spazi comuni: i circoli in tutta Italia sono 4.723, le tessere superano il milione (1.075.980).
Poi c’è la sinistra dei partiti. Ieri a portare il loro omaggio all’Arci c’erano: un radicale di centrosinistra ( Riccardo Magi), il più di sinistra tra i renziani ortodossi ( Matteo Orfini), il candidato di sinistra alla segreteria del Pd ( Andrea Orlando), l’altro candidato ancora più di sinistra alla segreteria del Pd ( Michele Emiliano , intervenuto via telefono per l’infortunio al tendine d’Achille), il giovane leader della sinistra del Pd che si è appena scissa dal Pd ( Roberto Speranza), il giovane leader del partito alla sinistra del Pd noto come Sinistra Italiana ( Nicola Fratoianni ), l’ex segretario del partito che a tutt’oggi si de- finisce “della Rifondazione Comunista”( Paolo Ferrero), l’ex sindaco di Milano che ambisce a tenere insieme tutti (o quasi) i pezzi della sinistra di cui sopra ( Giuliano Pisapia).
L’effetto di vederli sul palco (divisi in due turni) è piuttosto straniante. Anche perché dopo i saluti e i ringraziamenti ad Arci e le belle parole sul bisogno di “ascolto” reciproco, di “inclusione” e“rappresentanza”, di tanto in tanto capita di inciampare su qualche argomento concreto. E per magia si torna al punto di partenza: correnti, micro e macro partiti della sinistra italiana non vanno d’accordo praticamente su nulla.
Prendiamo Andrea Orlan- do. Il ministro della Giustizia ha l’ambizione legittima di spostare l’asse del Pd renziano per riportarlo nel campo del centrosinistra.
Il suo intervento di fronte a una platea di potenziali elettori è lucido, convincente, progressista. Si prende un sacco di applausi. Ma Orlando ha un problema: i decreti Minniti sull’immigrazione e “il decoro urbano” – quelli, per semplificare, che creano una giustizia parallela per i richiedenti asilo e pretendono di far pagare multe da centinaia d’euro a chi dorme in stazione – portano anche il suo cognome. Proprio così: lui non ne parla molto, e tutti li accreditano al ministro dell’Interno, ma quelle due leggi che occhieggiano al salvinismo si chiamano “Minniti-Orlando”. La disgrazia è che qualcuno glielo fa notare. Appena finiti gli applausi per il Guardasigilli, prende la parola Fratoianni: “Lo chiedo all’autore dei decreti, che per coincidenza è presente: che cosa è successo alla cultura di sinistra, se invece di fare la guerra alla povertà si fa la guerra ai poveri? Queste norme prevedono istituti incompatibili con la civiltà”. Il pubblico forse era distratto, applaude ancora, e più forte di prima.
SI VA AVANTI così, tra piccole rimozioni e un senso di dissociazione generale. Orfini e Speranza, freschi di divorzio, siedono accanto e salgono sul palco insieme. E pure al primo, per osmosi o per questione d’opportunità, esce qualche parola “di sinistra”: contro le privatizzazioni ventilate da Padoan e contro la conferma di Gianni De Gennaro a Finmeccanica ( un suo vecchio cavallo di battaglia rispolverato dopo il mea culpa del governo su Bolzaneto). Poi cala il sipario, e ognuno per la sua strada.
Lo chiedo a Orlando: che succede alla cultura di sinistra per produrre decreti come il suo?
NICOLA FRATOIANNI