L’ULTIMA ROULETTE DEL “WAR PRESIDENT”
Èil destino in politica degli arruffapopoli, degli avventurieri e degli opportunisti: non avendo principi né idee coerenti si lasciano trascinare di qua e di là dalla sorte; così che spesso finiscono per fare esattamente il contrario di quello che promettevano. Trump è divenuto presidente raccontando agli elettori che con lui gli Stati Uniti avrebbero girato al largo dalle mischie mediorientali, seppellito l’interventismo umanitario, perdonato Assad e collaborato con Putin nella sempiterna war on terror. Neppure 3 mesi dopo l’insediamento Trump fa quel che il vituperato Obama non aveva osato: scaglia i missili contro l’esercito di Assad, si affaccia nel labirinto siriano, sfida Putin; e il tutto proprio nel nome di valori costitutivi dell’internazionalismo liberale. La fretta di intervenire, prim’ancora che una qualche commissione Onu avesse confermato la responsabilità del regime, suggerisce che la strage sia solo una concausa nel brusco cambiamento di rotta americano. Dopotutto i massacri ci scandalizzano solo quando lo decidiamo noi. E negli ultimi 4 anni gli occidentali avevano avuto tanto pelo sullo stomaco da chiudere gli occhi su 64 attacchi con i gas, quasi tutti operati dai militari di Assad. Inoltre chiunque intenda la caoticità del conflitto sa che le Forze armate siriane, esattamente come il fronte nemico, sono una costellazione di truppe i cui capi e capimafia agiscono in proprio. È verosimile che una logica unicamente locale abbia indotto alcuni comandanti a decidere autonomamente un ‘piccolo massacro dimostrativo’ con i gas, così da spezzare la resistenza dei ribelli nella sacca di Idlib, dove le stremate truppe siriane non riescono ad avanzare.
In ogni caso Trump ha avuto all’improvviso l’o cc asione di esibirsi nel ruolo che molta opinione pubblica americana preferisce, il war p re s id e nt , il presidente ‘ di guerra’ che riafferma il primato americano nei termini del dominio militare. Risalirà nei sondaggi e farà dimenticare, almeno per un po’, quei solidi sospetti di un contributo russo alla sua elezione che già alimentano, anche tra i repubblicani, propositi di im- peachment. Ma resta un presidente debole, isolato, non molto intelligente: la tentazione di salvarsi calandosi il cimiero sulla zazzera e sciabolando intorno dev’essere forte. Altrettanto forti i rischi di una micidiale deflagrazione. Nessuno tra i regimi che oggi competono con gli Usa può permettersi di perdere la faccia, soprattutto mentre le crisi economiche diffondono scontento nella popolazione. Il Medio oriente, poi, è sempre più in bilico.
GLI IRANIANI e i loro ascari hazara e arabi, gli Hezbollah libanesi, Netanyahu: tutti ormai prossimi alla guerra. Il piano di pace per la Siria con cui si trastullava la diplomazia Onu da ieri di fatto va considerato defunto, ed è un bene perché era fondato sull’equivoco che vuole i siriani grossomodo dei bruti, selvaggi che si sarebbero adattati a convivere con il regime di Assad dimenticandone i metodi. Stupirà in Italia maggioranza e opposizione, ma quei barbari sono curiosamente simili a noi, che nel 1945 non avrem- mo mai accettato di tenerci Mussolini. Finalmente Assad è fuori dai giochi, sia pure a causa dell’unico crimine di cui forse non è stato direttamente corresponsabile. Ma Washington non ha uno straccio di strategia alternativa. L’Europa, evanescente come al solito. La Lega araba, l’Organizzazione dei Paesi islamici, patetiche finzioni.
L’insieme sta diventando così casuale e incontrollato da ricordare quei processi di entropia che conducono con una progressione presto in ar r e st abile al tum u l tu os o collasso di un sistema, in questo caso il vecchio ordine mediorientale. Dell’e r uzione in corso a noi finora è arrivato solo qualche lapillo, però già sufficiente a produrre morte e terrore (come nell’attentato di ieri a Stoccolma). Dovrebbe bastare per indurre gli europei ad abbozzare una strategia per il Medio Oriente, qualcosa di più del solito pigolare sulla necessità del negoziato, qualcosa di diverso dal lasciare l’iniziativa ad un’immobiliarista che potrebbe trovare comodi gli abiti di scena del war president.
È il destino in politica degli arruffapopoli opportunisti: finiscono per fare il contrario di ciò che promettevano