Il Fatto Quotidiano

Il letterato di fabbrica e il “mestiere altrui”

- » ALESSANDRO PERISSINOT­TO

L’EDIFICIO che concentra in sé la memoria di Primo Levi non è la casa natale, in corso Re Umberto a Torino, ma è una palazzina a due piani, in stile liberty, a Settimo Torinese: la vecchia sede della Società Industrial­e Vernici e Affini. Primo Levi ci ha lavorato per 29 anni, come chimico e come dirigente, e se è lì che lo ricordiamo non è perché in quello stabilimen­to sia accaduto qualcosa di particolar­e, ma per il fatto, semplice e straordina­rio al tempo stesso, che la quotidiani­tà di uno dei più grandi scrittori del Novecento non si è consumata davanti al taccuino o alla macchina da scrivere, ma è scivolata via tra gli smalti e gli antiruggin­e, tra una autoclave e un forno.

Cercare Primo Levi nella sua fabbrica significa ritrovare uno scrittore che, prima ancora del problema della pagina da riempire, affronta quello della vernice che si “impolmonis­ce” o dei fornitori che non consegnano; significa capire perché, quando finalmente si decide a prenderla di petto quella pagina, con Il sistema periodico o con La

chiave a stella, ecco che la riempie di realtà, fresca e autentica nei contenuti come nella lingua, ecco che la riempie di personaggi veri, infinitame­nte lontani da quelli di certi suoi colleghi che, in quegli stessi anni, giocano da virtuosi col dizionario anche quando parlano (talvolta senza conoscerla) di industria.

E c’è qualcosa di molto torinese in tutto questo; c’è il culto del lavoro come “approssima­zione alla felicità” (Marco Belpoliti) e c’è la modestia di chi, anche dopo la consacrazi­one a scrittore, si ostina a considerar­e quello delle lettere L’altrui mestiere.

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Torinese Perissinot­to, 52 anni: “Quel che l’acqua nasconde” è il suo ultimo romanzo

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