Il letterato di fabbrica e il “mestiere altrui”
L’EDIFICIO che concentra in sé la memoria di Primo Levi non è la casa natale, in corso Re Umberto a Torino, ma è una palazzina a due piani, in stile liberty, a Settimo Torinese: la vecchia sede della Società Industriale Vernici e Affini. Primo Levi ci ha lavorato per 29 anni, come chimico e come dirigente, e se è lì che lo ricordiamo non è perché in quello stabilimento sia accaduto qualcosa di particolare, ma per il fatto, semplice e straordinario al tempo stesso, che la quotidianità di uno dei più grandi scrittori del Novecento non si è consumata davanti al taccuino o alla macchina da scrivere, ma è scivolata via tra gli smalti e gli antiruggine, tra una autoclave e un forno.
Cercare Primo Levi nella sua fabbrica significa ritrovare uno scrittore che, prima ancora del problema della pagina da riempire, affronta quello della vernice che si “impolmonisce” o dei fornitori che non consegnano; significa capire perché, quando finalmente si decide a prenderla di petto quella pagina, con Il sistema periodico o con La
chiave a stella, ecco che la riempie di realtà, fresca e autentica nei contenuti come nella lingua, ecco che la riempie di personaggi veri, infinitamente lontani da quelli di certi suoi colleghi che, in quegli stessi anni, giocano da virtuosi col dizionario anche quando parlano (talvolta senza conoscerla) di industria.
E c’è qualcosa di molto torinese in tutto questo; c’è il culto del lavoro come “approssimazione alla felicità” (Marco Belpoliti) e c’è la modestia di chi, anche dopo la consacrazione a scrittore, si ostina a considerare quello delle lettere L’altrui mestiere.