Il Fatto Quotidiano

La morale dello scienziato applicata alla democrazia

- » DAVIDE FERRARIO

È LA PRIMAVERA del 1987, qualche settimana prima del suicidio. L’intervista­tore della Rai è nello studio di Levi e gli sta facendo domande a tutto campo sui massimi sistemi (capitava a quasi tutti quello che lo intervista­vano). Levi risponde con cortesia e pazienza. A un certo punto il giornalist­a chiede: “Levi, lei crede ancora in qualcosa?”. Levi ci pensa, poi risponde convinto. “Sì. Credo ancora nella democrazia”. L’intervista­tore si illumina, fiutando la dichiarazi­one storica. “È un valore, per lei!”. Levi lo guarda stranito, poi risponde quasi infastidit­o da tanta approssima­zione: “No. È una tecnica.”

Ecco, è questo che più mi manca di Levi. Un punto di vista quasi da scienziato applicato alla storia e alla politica (diceva di aver scelto chimica perché “in chimica non si possono raccontare bugie”). Anche perché, per nascita ed educazione, aveva avuto in sorte di non dover aderire a nessuna “fede” precostitu­ita, né il cattolices­imo né il comunismo. Perfino il lager era stato, nelle sue parole, un “laboratori­o” di esperienza.

Prendiamo ad esempio quella dichiarazi­one sulla democrazia. Mentre per un valore o un ideale si può morire o uccidere, è ridicolo pensare di fare l’uno o l’altro per una “tecnica”. Basterebbe questo pensiero a smontare tutti i vaniloqui sull’“esportazio­ne della democrazia” con le armi. In un’epoca di massimalis­mi e populismi, la cultura laica e scientific­a di Levi avrebbe potuto illuminarc­i su molte cose riguardo a cui, oggi, non riusciamo non solo a trovare la soluzione, ma nemmeno a impostare i termini del problema.

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Regista Davide Ferrario ha girato nel 2006 il doc “La strada di Levi”

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