La morale dello scienziato applicata alla democrazia
È LA PRIMAVERA del 1987, qualche settimana prima del suicidio. L’intervistatore della Rai è nello studio di Levi e gli sta facendo domande a tutto campo sui massimi sistemi (capitava a quasi tutti quello che lo intervistavano). Levi risponde con cortesia e pazienza. A un certo punto il giornalista chiede: “Levi, lei crede ancora in qualcosa?”. Levi ci pensa, poi risponde convinto. “Sì. Credo ancora nella democrazia”. L’intervistatore si illumina, fiutando la dichiarazione storica. “È un valore, per lei!”. Levi lo guarda stranito, poi risponde quasi infastidito da tanta approssimazione: “No. È una tecnica.”
Ecco, è questo che più mi manca di Levi. Un punto di vista quasi da scienziato applicato alla storia e alla politica (diceva di aver scelto chimica perché “in chimica non si possono raccontare bugie”). Anche perché, per nascita ed educazione, aveva avuto in sorte di non dover aderire a nessuna “fede” precostituita, né il cattolicesimo né il comunismo. Perfino il lager era stato, nelle sue parole, un “laboratorio” di esperienza.
Prendiamo ad esempio quella dichiarazione sulla democrazia. Mentre per un valore o un ideale si può morire o uccidere, è ridicolo pensare di fare l’uno o l’altro per una “tecnica”. Basterebbe questo pensiero a smontare tutti i vaniloqui sull’“esportazione della democrazia” con le armi. In un’epoca di massimalismi e populismi, la cultura laica e scientifica di Levi avrebbe potuto illuminarci su molte cose riguardo a cui, oggi, non riusciamo non solo a trovare la soluzione, ma nemmeno a impostare i termini del problema.