I ribelli temono di essere sacrificati nel Risiko siriano
Un conflitto a intermittenza I gruppi anti-regime si sono entusiasmati ma durerà poco: sanno di non essere loro al centro della partita
L’umore dei ribelli è cambiato all'improvviso. Non è la prima volta, qui, in questi cinque anni. La guerra in Siria ha un’unica costante: quando una delle due parti è a un passo dalla vittoria, arriva l’imprevisto. E tutto si capovolge. Tutto ricomincia. E quindi i ribelli, che fino a pochi giorni fa si aggiravano sconsolati affidandosi ad Allah, adesso, più pragmatici, si affidano ai kalashnikov: e pianificano nuove battaglie. Stanno tutti davanti alle mappe. Parlo con alcuni comandanti, e intanto un ragazzino, in un angolo, lucida anfibi.
In realtà, Trump è quello che ha sbarrato le frontiere ai profughi siriani. Difficile credere che ora gli interessi la Siria, ha detto subito Marwan Bishara, il principale analista di al Jazeera. Trump è intervenuto contro Putin. Non contro Assad.
Regime e oppositori stessa accozzaglia
Al di là dell'entusiasmo, e del via vai di comandanti, niente è cambiato. I ribelli hanno ritrovato nel giro di mezz’ora l'unità che ritrovano nei momenti epici: per poi perderla appena conquistano un minimo di territorio e potere; e non si tratta più di sparare, ma di governare. Né è cambiato niente, però, dall'altro lato del fronte. Se qui i ribelli sono frantumati in oltre mille sigle, in realtà anche quello che chiamiamo “esercito di Assad” non è altro che un improbabile agglomerato di aerei russi, miliziani di Hezbol- lah, miliziani iraniani. Mercenari di ogni tipo. Ormai sia il regime sia i ribelli hanno la stessa struttura: decine e decine di gruppi armati che al fondo, rispondono solo agli ordini dei propri comandanti. E soprattutto, dei propri sostenitori stranieri. Ognuno con una propria agenda, un proprio obiettivo. Una propria guerra.
Nessuno, qui, ha un progetto per la Siria. Tanto meno Trump. Il bombardamento della base aerea di Shayrat, da cui sarebbe partito l’attacco chimico su Khan Sheikhun, ha ribadito la convinzione che questa guerra possa essere chiusa con la forza. E invece, questa è forse l’unica cosa chiara, qui: è necessaria una soluzione politica. Nessuno, in Siria, può prevalere con le armi. E infatti, Shayrat è già di nuovo in funzione.
Non tutti hanno festeggiato
Nikki Haley, ambasciatrice degli Stati Uniti alle Nazioni Unite, fino a una settimana fa diceva che sì, Assad in effetti è un ostacolo alla pace, e che però no, rimuoverlo non è una priorità. Era il 29 marzo. Il 7 aprile, il giorno dopo il bombardamento di Shayrat, Rex Tillerson, segretario di Stato, ha detto che è stato un “one-off ”, un colpo singolo. Nient'altro. Che la posizione degli Stati Uniti sulla Siria ri- mane la stessa. Ma il giorno dopo ancora, l'8 aprile, è stato ancora il turno di Nikki Haley: ha detto che gli Stati Uniti sono pronti a ulteriori azioni. “Il problema è che diciamo Stati Uniti, ma in realtà diciamo Trump. Diciamo Russia, ma in realtà diciamo Putin”, ha commentato a un certo punto il mio interprete. “Non esistono più gli stati e i loro interessi: esistono solo gli interessi di chi sta al potere. E così, è ovvio, non si capisce più niente. Così può cambiare tutto in un minuto”.
Non tutti i siriani, infatti, hanno festeggiato l'intervento americano. Gli attivisti sono divisi. Alcuni, come Robin Yassin-Kassab, dicono che non c'è alternativa, per fermare la guerra. Altri inve- ce, come Razan Ghazzawi, dicono che non si è mai vista una guerra fermata da altra guerra. Hanno una cosa in comune, però: sono tutti siriani che vivono all’estero. I siriani che vivono in Siria hanno troppa paura per parlare. O non hanno l’elettricità per una telefonata.
Le aspettative di Erdogan
E dal momento che anche quando diciamo Turchia, in realtà, ormai diciamo Erdogan, mentre i riflettori sono tutti su Trump e Putin, il cambiamento vero sembra essere piuttosto qui al confine. A una settimana dal referendum costituzionale del 16 aprile, che probabilmente gli consegnerà ampi poteri, Erdogan è più carico che mai. Nemico giurato di Assad, che vorrebbe sostituire con islamisti simili a quelli del suo partito, simili a quei Fratelli Musulmani che con Mohamed Morsi vinsero le elezioni in Egitto, negli ultimi mesi si è riavvicinato a Putin per frenare l’avanzata dei curdi. Gli altri suoi nemici giurati. Ma ora, a giudicare dal via vai, il confine, per armi e combattenti, non è più sigillato come prima.
Non per i profughi, però. Perché l’interesse è per la Siria, non per i siriani.
Nulla di nuovo sul fronte mediorientale.
Il dibattito
I rifugiati all’estero discutono sul conflitto, chi lo vive ogni giorno ha troppa paura
Altro che bombe L’unica cosa chiara per chi vive assediato è che la soluzione è politica, la forza non serve