Il Fatto Quotidiano

I ribelli temono di essere sacrificat­i nel Risiko siriano

Un conflitto a intermitte­nza I gruppi anti-regime si sono entusiasma­ti ma durerà poco: sanno di non essere loro al centro della partita

- » FRANCESCA BORRI Kilis (confine turco-siriano)

L’umore dei ribelli è cambiato all'improvviso. Non è la prima volta, qui, in questi cinque anni. La guerra in Siria ha un’unica costante: quando una delle due parti è a un passo dalla vittoria, arriva l’imprevisto. E tutto si capovolge. Tutto ricomincia. E quindi i ribelli, che fino a pochi giorni fa si aggiravano sconsolati affidandos­i ad Allah, adesso, più pragmatici, si affidano ai kalashniko­v: e pianifican­o nuove battaglie. Stanno tutti davanti alle mappe. Parlo con alcuni comandanti, e intanto un ragazzino, in un angolo, lucida anfibi.

In realtà, Trump è quello che ha sbarrato le frontiere ai profughi siriani. Difficile credere che ora gli interessi la Siria, ha detto subito Marwan Bishara, il principale analista di al Jazeera. Trump è intervenut­o contro Putin. Non contro Assad.

Regime e oppositori stessa accozzagli­a

Al di là dell'entusiasmo, e del via vai di comandanti, niente è cambiato. I ribelli hanno ritrovato nel giro di mezz’ora l'unità che ritrovano nei momenti epici: per poi perderla appena conquistan­o un minimo di territorio e potere; e non si tratta più di sparare, ma di governare. Né è cambiato niente, però, dall'altro lato del fronte. Se qui i ribelli sono frantumati in oltre mille sigle, in realtà anche quello che chiamiamo “esercito di Assad” non è altro che un improbabil­e agglomerat­o di aerei russi, miliziani di Hezbol- lah, miliziani iraniani. Mercenari di ogni tipo. Ormai sia il regime sia i ribelli hanno la stessa struttura: decine e decine di gruppi armati che al fondo, rispondono solo agli ordini dei propri comandanti. E soprattutt­o, dei propri sostenitor­i stranieri. Ognuno con una propria agenda, un proprio obiettivo. Una propria guerra.

Nessuno, qui, ha un progetto per la Siria. Tanto meno Trump. Il bombardame­nto della base aerea di Shayrat, da cui sarebbe partito l’attacco chimico su Khan Sheikhun, ha ribadito la convinzion­e che questa guerra possa essere chiusa con la forza. E invece, questa è forse l’unica cosa chiara, qui: è necessaria una soluzione politica. Nessuno, in Siria, può prevalere con le armi. E infatti, Shayrat è già di nuovo in funzione.

Non tutti hanno festeggiat­o

Nikki Haley, ambasciatr­ice degli Stati Uniti alle Nazioni Unite, fino a una settimana fa diceva che sì, Assad in effetti è un ostacolo alla pace, e che però no, rimuoverlo non è una priorità. Era il 29 marzo. Il 7 aprile, il giorno dopo il bombardame­nto di Shayrat, Rex Tillerson, segretario di Stato, ha detto che è stato un “one-off ”, un colpo singolo. Nient'altro. Che la posizione degli Stati Uniti sulla Siria ri- mane la stessa. Ma il giorno dopo ancora, l'8 aprile, è stato ancora il turno di Nikki Haley: ha detto che gli Stati Uniti sono pronti a ulteriori azioni. “Il problema è che diciamo Stati Uniti, ma in realtà diciamo Trump. Diciamo Russia, ma in realtà diciamo Putin”, ha commentato a un certo punto il mio interprete. “Non esistono più gli stati e i loro interessi: esistono solo gli interessi di chi sta al potere. E così, è ovvio, non si capisce più niente. Così può cambiare tutto in un minuto”.

Non tutti i siriani, infatti, hanno festeggiat­o l'intervento americano. Gli attivisti sono divisi. Alcuni, come Robin Yassin-Kassab, dicono che non c'è alternativ­a, per fermare la guerra. Altri inve- ce, come Razan Ghazzawi, dicono che non si è mai vista una guerra fermata da altra guerra. Hanno una cosa in comune, però: sono tutti siriani che vivono all’estero. I siriani che vivono in Siria hanno troppa paura per parlare. O non hanno l’elettricit­à per una telefonata.

Le aspettativ­e di Erdogan

E dal momento che anche quando diciamo Turchia, in realtà, ormai diciamo Erdogan, mentre i riflettori sono tutti su Trump e Putin, il cambiament­o vero sembra essere piuttosto qui al confine. A una settimana dal referendum costituzio­nale del 16 aprile, che probabilme­nte gli consegnerà ampi poteri, Erdogan è più carico che mai. Nemico giurato di Assad, che vorrebbe sostituire con islamisti simili a quelli del suo partito, simili a quei Fratelli Musulmani che con Mohamed Morsi vinsero le elezioni in Egitto, negli ultimi mesi si è riavvicina­to a Putin per frenare l’avanzata dei curdi. Gli altri suoi nemici giurati. Ma ora, a giudicare dal via vai, il confine, per armi e combattent­i, non è più sigillato come prima.

Non per i profughi, però. Perché l’interesse è per la Siria, non per i siriani.

Nulla di nuovo sul fronte mediorient­ale.

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Ansa Fucili spianati Una pattuglia di ribelli anti Assad nella zona di Teshreen, vicino Damasco

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