La strana richiesta d’oblio di Tavecchio
La pena in Italia ha come obbiettivo la riabilitazione del condannato. E in molti casi ci riesce pure. Per questo, quando un privato cittadino paga alla giustizia il dovuto e poi per lungo tempo dimostra di essere diventato una persona per bene, è giusto che chieda a tutti, a partire dai giornali, di non ricordare più le sue lontane malefatte. A dimostrare che è diventato un individuo diverso da quello che era c’è intanto la sua seconda parte di esistenza. La reputazione che ha saputo ricrearsi.
IL DISCORSO CAMBIA però se chi è stato condannato e poi si è riabilitato vuole partecipare alla vita pubblica o se i reati che ha commesso sono legati a incarichi elettivi da lui ricoperti. A quel punto non c’è più solo in ballo il diritto all’oblio di chi si è riscattato. Entra in gioco il diritto alla trasparenza degli altri cittadini. Se voto per il consiglio comunale devo sapere tutto sul curriculum di ogni singolo candidato. In questo modo potrò decidere liberamente cosa ritengo corretto fare. Potrò votarlo perché penso che la sua vecchia condanna sia stata solo un incidente di percorso. Potrò non votarlo perché ho dei dubbi e non me la sento di rischiare. Oppure potrò dirgli di no perché sono convinto che per mantenere alto il buon nome di un’istituzione sia bene non consentire l’ingresso di chi ha sbagliato o che, riabilitazione a parte, sia sempre opportuno far sentire la riprovazione sociale nei confronti di chi si è comportato male.
Quest’ultima ragione, tipica dei paesi del nord Europa, ha dei pro e di contro, ma è senza dubbio efficace: chi pensa di delinquere sa che la sua scelta avrà delle conseguenze anche al di là di un’eventuale pena. In molti smetteranno di frequentarlo. Non lo accetteranno più nelle loro associazioni, non lo inviteranno più a cena. Il rischio di essere esclusi può insomma funzionare come un ulteriore incentivo a rispettare le regole. Oppure può servire per mettere al riparo la collettività dal pericolo rappresentato da chi ha cambiato vita per finta, o semplicemente ha continuato a fare quello che faceva prima senza essere scoperto. Se, per esempio, a Primo Greganti, dopo le condanne di Mani Pulite, fosse stato impedito di partecipare alle riunioni del Pd, o se a Gianstefano Frigerio, dopo le sentenze per le tangenti alla Democrazia Cristiana, non fosse stato dato un seggio in Forza Italia, ci saremmo risparmiati la scena di vederli fare i mediatori di mazzette nello scandalo Expo. Il diritto all’oblio, insomma, varia a secondo dei casi e delle persone. Per applicarlo basta un po’ di buon senso. Proprio quello che troppe volte le nostre classi dirigenti dimostrano di non avere. Chi lavora con me a ilfattoquotidiano.it lo sa bene.
Spesso accanto a lettere di privati cittadini che chiedono di cancellare i loro nomi da articoli pubblicati anni fa, arrivano pure richieste di politici o di persone che ricoprono pubbliche funzioni. L’ultima in ordine di tempo è del presidente delle Federazione Calcio, Carlo Tavecchio, che citando il codice della privacy e la corte di giustizia europea ci ha cortesemente domandato di far sparire “in via bonaria” nove articoli in cui si parlava delle condanne, seguite da riabilitazione giudiziaria, a lui inflitte tra il 1994 e il 1998 per reati fiscali, abuso d’ufficio e violazione delle norme per la tutela delle acque. Ovviamente gli abbiamo risposto di no. Non perché ce l’abbiamo con lui. O perché il diritto di cronaca ce lo consente. Ma perché alle istituzioni come il Coni ci teniamo ancora. E pensiamo che se il silenzio cala, lo sport italiano non potrà mai cambiare.