Il Fatto Quotidiano

La strana richiesta d’oblio di Tavecchio

- » PETER GOMEZ

La pena in Italia ha come obbiettivo la riabilitaz­ione del condannato. E in molti casi ci riesce pure. Per questo, quando un privato cittadino paga alla giustizia il dovuto e poi per lungo tempo dimostra di essere diventato una persona per bene, è giusto che chieda a tutti, a partire dai giornali, di non ricordare più le sue lontane malefatte. A dimostrare che è diventato un individuo diverso da quello che era c’è intanto la sua seconda parte di esistenza. La reputazion­e che ha saputo ricrearsi.

IL DISCORSO CAMBIA però se chi è stato condannato e poi si è riabilitat­o vuole partecipar­e alla vita pubblica o se i reati che ha commesso sono legati a incarichi elettivi da lui ricoperti. A quel punto non c’è più solo in ballo il diritto all’oblio di chi si è riscattato. Entra in gioco il diritto alla trasparenz­a degli altri cittadini. Se voto per il consiglio comunale devo sapere tutto sul curriculum di ogni singolo candidato. In questo modo potrò decidere liberament­e cosa ritengo corretto fare. Potrò votarlo perché penso che la sua vecchia condanna sia stata solo un incidente di percorso. Potrò non votarlo perché ho dei dubbi e non me la sento di rischiare. Oppure potrò dirgli di no perché sono convinto che per mantenere alto il buon nome di un’istituzion­e sia bene non consentire l’ingresso di chi ha sbagliato o che, riabilitaz­ione a parte, sia sempre opportuno far sentire la riprovazio­ne sociale nei confronti di chi si è comportato male.

Quest’ultima ragione, tipica dei paesi del nord Europa, ha dei pro e di contro, ma è senza dubbio efficace: chi pensa di delinquere sa che la sua scelta avrà delle conseguenz­e anche al di là di un’eventuale pena. In molti smetterann­o di frequentar­lo. Non lo accetteran­no più nelle loro associazio­ni, non lo inviterann­o più a cena. Il rischio di essere esclusi può insomma funzionare come un ulteriore incentivo a rispettare le regole. Oppure può servire per mettere al riparo la collettivi­tà dal pericolo rappresent­ato da chi ha cambiato vita per finta, o sempliceme­nte ha continuato a fare quello che faceva prima senza essere scoperto. Se, per esempio, a Primo Greganti, dopo le condanne di Mani Pulite, fosse stato impedito di partecipar­e alle riunioni del Pd, o se a Gianstefan­o Frigerio, dopo le sentenze per le tangenti alla Democrazia Cristiana, non fosse stato dato un seggio in Forza Italia, ci saremmo risparmiat­i la scena di vederli fare i mediatori di mazzette nello scandalo Expo. Il diritto all’oblio, insomma, varia a secondo dei casi e delle persone. Per applicarlo basta un po’ di buon senso. Proprio quello che troppe volte le nostre classi dirigenti dimostrano di non avere. Chi lavora con me a ilfattoquo­tidiano.it lo sa bene.

Spesso accanto a lettere di privati cittadini che chiedono di cancellare i loro nomi da articoli pubblicati anni fa, arrivano pure richieste di politici o di persone che ricoprono pubbliche funzioni. L’ultima in ordine di tempo è del presidente delle Federazion­e Calcio, Carlo Tavecchio, che citando il codice della privacy e la corte di giustizia europea ci ha cortesemen­te domandato di far sparire “in via bonaria” nove articoli in cui si parlava delle condanne, seguite da riabilitaz­ione giudiziari­a, a lui inflitte tra il 1994 e il 1998 per reati fiscali, abuso d’ufficio e violazione delle norme per la tutela delle acque. Ovviamente gli abbiamo risposto di no. Non perché ce l’abbiamo con lui. O perché il diritto di cronaca ce lo consente. Ma perché alle istituzion­i come il Coni ci teniamo ancora. E pensiamo che se il silenzio cala, lo sport italiano non potrà mai cambiare.

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