Primarie, i dem crollano al Nord e diventano un partito sudista
Dati veri di un mezzo fiasco
Meno di due mesi fa, era il 12 marzo, Matteo Renzi al Lingotto indicò le praterie del suo ritorno: i fatidici 13 milioni e mezzo di Sì al referendum istituzionale del 4 dicembre. Cinquanta giorni dopo il responso è stato funesto: alle primarie del 30 aprile l’ex premier ha racimolato appena un milione e 250.403 voti. Cioè un decimo della cifra referendaria. È sufficiente l’alibi renziano del lungo ponte del Primo Maggio?
Non solo. Il riconfermato leader del Pd perde 636.993 voti rispetto alle vittoriose primarie del 2013 contro Gianni Cuperlo, equivalenti a un vistosissimo meno 33,67 per cento. Da qualsiasi prospettiva si guardi ai dati arrivati dal Nazareno con quattro incredibili giorni di ritardo “nordcoreano”, il trionfalismo dell’ex Rottamatore somiglia più a una fake newso una post-verità. La realtà è un’altra e l’altro giorno l’ha fotografata crudelmente l’Istituto Cattaneo con una frase che nessun quotidiano di rango ha riportato: “Non esiste o sembra essersi esaurito un effetto Renzi sul Pd”. Figuriamoci sul Paese, dopo la citata catastrofe del 4 dicembre. Il Fattoha combinato l’analisi del Cattaneo con le comparazioni effettuate da Federico Fornaro, senatore bersaniano dei demoprogressisti di Articolo 1. Anche quando era nel Pd, Fornaro era l’uomo dei numeri.
QUESTA la sua premessa: “La grande rivincita di Renzi poggia su fondamenta fragilissime, fossi in lui eviterei questi toni trionfalistici. Anche perché dopo tre anni di governo e di gestione del potere ha perso un elettore su tre nel partito. Dalle primarie esce un Pd identitario in fase difensiva, non all’attacco”. E votato perlopiù da vecchi, aggiunge il Cattaneo: due terzi degli elettori, il 63 per cento, domenica 30 aprile aveva più di 55 anni.
Il crollo renziano è evidente soprattutto nella “zona rossa” come la chiama Fornaro nei suoi grafici. Qui rispetto al Nord e al comparto Sud e Isole (compreso il Lazio) c’è l’abisso maggiore rispetto al 2013: meno 46,65 per cento, come affluenza (da 963.680 a 514.156), e meno 45,34 per cento sul fronte dei voti per- sonali (da 721.007 a 394.068). Al Nord percentuali di poco inferiori: affluenza da 880.327 a 491.914, meno 44,12 per cento; preferenze da 588.764 a 360.233, meno 38,52. Al contrario, il Sud è motivo di consolazione, a conferma anche della progressiva democristianizzazione del Pd: affluenza meno 13,08 per cento, voti personali meno 14,14.
In ogni caso il raffronto dell’affluenza generale del 30 aprile con i dati del 2013 e del 2009 (quando vinse Bersani) sono spietati. Quest’an no hanno votato un milione e 827.400; nel 2013 due milioni e 788.911 (961.511 in più) e nel 2009 tre milioni e 030.873 (un milione e 203.473 in più).
PER TORNARE al Sud: le uniche due regioni a saldo positivo nel voto per Renzi, rispetto al 2013, sono la Calabria e la Basilicata. Nella prima regione c’è da segnalare una stranezza. La sera di domenica 30 aprile, dopo una giornata di entusiastici annunci, il Nazareno per alcune regioni ha indicato una stima anziché un numero preciso. È il caso appunto della Calabria. Così dai 70mila iniziali si è passati agli 81.926 finale: quasi 12mila voti in più. Nel voto per i candidati, Renzi ha ottenuto un 14,02 per cento in più rispetto al 2013. Incremento doppio, addirittura, in Basilicata, la regione dei fratelli Pittella: dai 18.977 voti personali del 2013 ai 24.792 del 2017: sulla stampa locale sono stati molti i sospetti su una massiccia partecipazione della destra ai gazebo.
Ma è tutto il Pd ad avere perso capacità di attrazione. Fornaro ha messo a confronto le due ultime coppie antirenziane: Orlando e Emiliano, da un lato, e Cuperlo e Civati dall’altro. Altro tracollo, stavolta su un versante più di sinistra. I voti di Cuperlo e Civati, nel 2013, sommati arrivarono a 901.515. Quattro anni dopo, quelli di Orlando ed Emiliano si fermano a 555.510: meno 38,36 per cento, pari a 346.005 voti in meno.
Da questo quadro non esce certamente un partito che gode di buona salute. Anzi. Sembra prendere sempre più corpo la profezia dello stesso Orlando alla vigilia della scontata vittoria di Renzi: “Un partito che rilegittima il leader e poi perde alle elezioni”. È quella che qualcuno chiama la sindrome di Hamon, dal nome del candidato socialista alle ultime Presidenziali francesi. Anche Hamon vinse le primarie con gli stessi numeri renziani. Salvo poi diventare protagonista di una catastrofe elettorale.