Non è possibile morire per un “selfie”
“Confezionare se stessi per presentarsi a un pubblico comporta una componente di esibizione” (da “Generazione APP” di Howard Gardner e Katie Davis – Feltrinelli, 2013 – pag. 75)
C’è un che di tragico e allo stesso tempo di grottesco nella fine dei coniugi trentunenni che il 1° maggio sono morti nel fiume Orta, durante una gita a Caramanico, nel Parco nazionale della Maiella. Per scattare un “selfie”, la moglie è scivolata sulle rocce umide e insidiose; il marito s’è tuffato nel tentativo di salvarla ed è annegato insieme a lei. Lasciano due figli piccoli, di 8 e 5 anni.
Non si può morire per un “selfie”. Non si può rischiare di perdere la vita per un autoscatto. E invece, accade sempre più di frequente, da un capo all’altro del mondo. Per immortalarsi in una foto più o meno ardita e stupefacente, tanti si suicidano involontariamente. È diventata una mania del nostro tempo, il tempo convulso della comunicazione istantanea, di Internet e dei social network. Una sorta di nemesi mediatica che miete vittime sull’a lta re della tecnologia. Un prezzo assurdo da pagare, in termini di vite umane, alla frenesia dell’esibizione e del protagonismo. Le statistiche dicono che nel 2015 sono morte 12 persone per autoscatti estremi. Più di quante ne abbiano uccise gli squali. E il fenomeno è tanto contagioso che in Russia il ministero dell’Interno ha diffuso una brochure per ammonire i cittadini sui pericoli della foto “postuma”.
CHE COSA SPINGE tanta gente a mettere a repentaglio la propria vita per un “selfie”? Perché rischiamo fino a questo punto, senza volerlo e senza saperlo, per un autoscatto che dovrebbe fotografare un momento di allegria o di felicità? E come possiamo difenderci da questa epidemia virtuale? Al fondo, c’è verosimilmente un’esigenza istintiva di fissare e riconoscere in quell’immagine la propria identità, senza ricorrere all’intervento altrui. Ognuno si mette in posa da sé e si ritrae come più gli aggrada: magari con l’ausilio di uno stick, il bastoncino telescopico per manovrare il cellulare a distanza. Poi, c’è l’esibizionismo personale, alimentato spesso dalla voglia di condivisione che induce a mettere in Rete il selfie per stupire o anche solo per comunicare agli altri quell’attimo fuggente. E infine, c’è l’ansia di apparire, di farsi osservare e ammirare, come un “divo” della televisione o una “velina”.
L’autoscatto è diventato, insomma, una dipendenza contemporanea che si propaga attraverso un contagio virale. Qualcuno arriva perfino a ricostruire un foto-montaggio, con il finto scenario di un Truman Show artigianale, in modo da rappresentare una realtà che appartiene all’immaginario collettivo. Una mini-fiction individuale, allestita per riscuotere i like della Rete, colpire la fantasia e suscitare ammirazione o invidia. È la società dello spettacolo e della comunicazione che induce alla selfie-mania, come uno psicofarmaco o una droga leggera. L’autoscatto compiace e gratifica la vanità personale. Può accrescere la stima e l’autostima. Aiuta a sentirsi protagonisti in un mondo che tende invece a livellare e appiattire la personalità.
Tutto questo, però, non giustifica evidentemente il rischio di morire. Più ne siamo consapevoli, meglio riusciremo a difenderci con la necessaria cautela, prevedendo e prevenendo una situazione di pericolo. Ecco un altro caso in cui si dimostra che anche le “cattive notizie”, come la tragica fine di quei giovani coniugi nelle acque del fiume Orta, possono servire a suscitare l’allarme sociale e a suggerire di conseguenza comportamenti più appropriati.