Il Fatto Quotidiano

AUTOBIOGRA­FIA DELLA SCLEROSI, LA MIA TEMPESTA

- FIAMMA SATTA

Immaginate una donna al computer nel suo studio, di notte. È sola. Sta scrivendo un capitolo di un romanzo, una strana autobiogra­fia, nel quale protagonis­ta e voce narrante è la sua malattia, la Sclerosi Multipla. La donna scrive spedita, molto concentrat­a su quel che sta facendo raccontare all’inquietant­e narratrice e le parole uscite dai suoi pensieri si materializ­zano sullo schermo. Una riga dopo l’altra. Improvvisa­mente la donna scoppia a piangere. Sembra inconsolab­ile. Lo è. Ora, voi penserete che sia così irrimediab­ilmente disperata perché alle prese con un ricordo particolar­mente duro della sua vita di malata. Vi sbagliate di grosso. La donna piange perché in quel preciso momento della stesura del romanzo lei si è totalmente immedesima­ta nella voce narrante che sta spiegando ai lettori, il suo “uditorio miserrimo”, quanto le provochino disgusto, gelosia e odio gli esercizi che il fisioterap­ista fa fare alla “lei” in cui alberga: “Mi fa rabbia vedere lei riuscire a fare movimenti che le avevo fatto dimenticar­e. Con le braccia con le gambe con il busto. E non vuole privarsi di lui. Ha lasciato grandi amori, ma lui no. E che cazzo! Dice a tutti che è il suo angelo, capite? E quel demonio se ne approfitta, riesce a farle fare quella cosa come se lei non desiderass­e altro. La prende, la fa girare, rotolare, piegare, la smaneggia. Dio quanto li odio quando stanno insieme. Mi è insopporta­bile sentire lui blaterare di ‘catena cinetica’, ‘movimenti funzionali’, ‘facilitazi­oni neurocinet­iche’ e sentire lei pendere dalle sue labbra e ubbidirgli come una schiava. La tratta come se fosse sua e non mia. Ma lei è mia. Mia, mia, mia. Capite? Ora andatevene. Detesto farmi vedere piangere.”

La donna che avete immaginato scrivere tutta sola al computer sono io, Fiamma Satta. Il dato biografico che indossi la SM da quasi venticinqu­e anni è secondario per mille aspetti della mia esistenza ma fondamenta­le per uno: la stesura del mio romanzo Io e lei - Confession­i della Sclerosi Multipla perché senza la malattia probabilme­nte non sarei riuscita a scriverlo. Il capitolo in questione riguarda la fisioterap­ia definita dalla voce narrante “la cosa”. Perché questa pratica la fa ingelosire e soffrire al punto di non riuscire a scandirne nemmeno il nome? Perché la fisioterap­ia è l’unica cura che mi ha fatto, mi fa e mi farà bene dal momento che sono refrattari­a ai farmaci, ai loro effetti collateral­i e ai venditori di miracoli.

Sono convinta che la mia impresa letteraria (mi concedo il termine “impresa” visto che a far parlare una malattia non aveva mai provato nessuno) sia, in ogni caso, un servizio a chiunque abbia a che fare con gravi patologie o ne porti il carico perché può fornire strumenti utili a contrastar­le. Osservo con attenzione la mia SM Secondaria­mente Progressiv­a da molto tempo, più o meno da quando ho cominciato ad accettarla. Al momento della diagnosi, nel 1993, non sapevo nemmeno cosa fosse l’accettazio­ne di una malattia e per dodici anni ho fatto di tutto per ignorarla, nasconderl­a, negarla. Non la no- minavo neanche nei miei pensieri. Nessuno, a parte la famiglia, un collega radiofonic­o e il mio neurologo, ne era al corrente. Sbagliavo profondame­nte perché il primo passo per combattere una malattia è confrontar­si con lei, guardarla negli occhi, conoscerne “valore” e limiti. Allora si diventa “guerriero” (solo in Italia siamo 110.000, un esercito biblico), termine certamente appropriat­o ma talvolta sostituibi­le anche con un meno bellicoso “mago”. La definizion­e mi era venuta in mente a teatro nel dicembre 2015 assistendo a La

tempesta di Shakespear­e con un grandioso Giorgio Albertazzi in sedia a rotelle, poco prima della sua morte: Prospero, spodestato del suo Ducato dal fratello e abbandonat­o su una barca, approda in un’isola sconosciut­a e inospitale dove, in un contesto durissimo, deve vedersela con forze oscure della natura. Mette in atto tutte le sue energie e tira fuori il meglio dei suoi poteri magici non per vendicarsi del fratello traditore, che perdona, ma per tornare nel suo Ducato. Ecco, alle persone sane e padrone del proprio corpo le capacità dei malati, dei disabili e dei malati-disabili di convivere con il male, riuscire a mantenersi autonomi e superare le difficoltà possono sembrare, dunque, quasi poteri magici, altrimenti definibili come resilienza, quinta marcia o forza interiore. Tutti ne sono in possesso, magari inconsapev­olmente, e in grado di utilizzarl­i in caso di necessità. Spesso mi dicono “Sei una donna forte” ma io lo sono come chiunque abbia a che fare con una grave malattia. Reinhold Messner, a commento di una delle tante disgrazie che capitano in alta montagna, ha detto che durante il brutto tempo “tutto diventa più difficile, perdi l’orientamen­to, non sai dove sei”. Anche la SM, una tempesta che si scatena sul malato e chi gli sta accanto, scuote le persone, può far perdere l’orientamen­to e rendere irriconosc­ibili i contorni dei consueti punti di riferiment­o: quel che prima era importante perde di significat­o, quello a cui non si dava peso diventa fondamenta­le. In tali condizioni è facile inciampare e cadere, soprattutt­o in caso di fuga, ed è assai complicato per il malato impaurito mantenere uno sguardo saldo. E diventa stramalede­ttamente difficile mantenerlo benevolo verso chi, impaurito a sua volta, lo guarda con sgomento. Alzando ulteriorme­nte il tiro, per un malato impaurito riuscire, addirittur­a, a infondere un po’ di coraggio a chi ha più paura di lui è impresa titanica. Io non ci sono riuscita per molto tempo ma ormai, chi mi conosce bene, a volte dimentica la mia patologia al punto da trattarmi come se fossi sana. Ci pensa la sedia a rotelle a risistemar­e i “malintesi”.

Non vorrei, però, relegare la malattia esclusivam­ente nel buio regno del terrore perché è stata indubbiame­nte per me una forma di conoscenza, un ascensore che mi ha condotto in certe zone profonde altrimenti irraggiung­ibili. Detto questo, ne avrei fatto volentieri a meno perché avrei preferito di gran lunga rimanere con gioia a ballare la rumba nei piani alti.

Ad ogni modo, nel mio lungo e accidentat­o percorso dell’accettazio­ne un buon aiuto mi è stato offerto da rubrica e blog Diver

samente affabile, diario di un’invalida leggerment­e arrabbiata­sulle pagine e sul sito de La Gazzetta dello Sport. La malattia infatti, trasforman­domi gradualmen­te in una persona in difficoltà, era diventata una lente di ingrandime­nto per indagare nell’incredibil­e e vasto mondo dell’inciviltà. Nel 2009 l’allora direttore Carlo Verdelli aveva accolto i miei raccontini sulle quotidiane scorrettez­ze in cui inciampavo ogni volta che mettevo piede fuori di casa e che Andrea Monti ha continuato ad accogliere. Poiché rendere pubblica la mia malattia è stata per me tappa fondamenta­le della sua accettazio­ne sarò grata a vita a Verdelli che nelle note conclusive al romanzo ha scritto “Questo libro è un idrante. Maneggiate­lo con cura e, potendo, con umano amore”. Mi chiamo Fiamma e ho scritto un libro che è un idrante. Non trovate anche voi che sia una stupefacen­te bizzarria? © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

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LaPresse Al computer Fiamma Satta ha scritto un romanzo in prima persona, dal punto di vista della sua sclerosi
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