La classe operaia non andava in atelier, ma “viveva” la moda
100 ANNI Fino al 1° novembre al Museo Nazionale di Villa Pisani a Stra, in mostra 300 fotografie originali sulla storia “minore” dei costumi quotidiani degli italiani dal 1860 al 1960
La classe operaia e la piccola borghesia in Italia sono scomparse. Lo dice l’Istat. Chissà che fine faranno i loro abiti, i vestiti di riconoscimento, allora, verrebbe da chiedersi. Quelli “modesti e ordinari che hanno costituito il segnale d’appartenenza alla più numerosa classe sociale d’Italia, dal 1860 ad oggi”. Quelli fissati dal più importante dispositivo per immagini prima che il cinema facesse la sua parte: la fotografia.
LÌ, NELLE FOTO, per fortuna resteranno per sempre. A testimonianza di un secolo di mode, colori, allegria, lavoro e giorni di festa.
Trecento di questi scatti sono in mostra, fino a novembre al Museo Nazionale di Villa Pisani, Stra (Ve) e raccontano non tanto lo sfarzo, il lusso dell’Alta moda, ma l’evoluzione nell’arco di un secolo (1860-1960) dei costumi degli italiani “gente comune”: uomini, donne e bambini che affollavano piazze, uffici e giardini pubblici.
L’esposizione, promossa dalla Direzione del Polo Museale del Veneto, organizzata e realizzata da Munus e pastrocinata dal Comune di Stra, raccoglie le fotografie familiari scattate quando la macchina fotografica non era ancora un oggetto né economico né maneggevole, o addirittura quelle eseguite dai cosiddetti “scattini” sempre in agguato agli angoli delle strade o nelle piazze, o ancora alle stazioni dei treni.
È proprio in questi scatti che spesso si ritrova non soltanto l’Alta moda reinventata con allegria dalla piccola borghesia nascente negli anni dell’industrializzazione, ma soprattutto il “fuori moda”. Tutto quell’armamentario di vestiti, abiti, pettinature e trucchi non aggiornati né adeguati ai costumi dell’Alta moda dell’epoca continuamente mutanti. Corsetti, cappelli, piume, lunghi abiti, pettinature a onde, boccoli, baffi arricciati, righe al lato per gli uomini. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento è così che va la moda. Poi arrivano le mantelline, le spalle nude, le caviglie scoperte delle donne in posa nelle sale da ballo. E poi ancora, i primi costumi da bagno e le minigonne.
Nelle immagini della mostra rivivono cento anni cruciali anche per il made in Italy, i cosiddetti “modi italiani per l’ab b i gl ia m en t o ” ma anche per la morale e il vivere civile. Tutti, o quasi, resi attraverso le immagini femminili. Dalle modelle alla vita quotidiana, sono sempre le donne che “nell’Ottocento disegnano la propria funzione di femminilità e di virtù domestiche, e poi col Novecento una progressiva seppur lenta, maggiore affermazione sociale di sé espressa dalla riforma continua d el l’ab bi gl ia me nt o”, come spiega nel catalogo Alberto Monodori Sagrado, curatore della mostra. Gli uomini, sempre un po’ indietro, mutano lentamente d’abito e di pensiero e non è mai del tutto una rivoluzione la loro, almeno fino agli anni Settanta del Novecento “continuando a mantenere una posizione di privilegio nella gerarchia sociale”. Solo a questo punto si accorcia la giacca, il risvolto dei pantaloni e cambia la posizione delle tasche.
LE DONNE, AL CONTRARIO, mettono in atto piccole e continue rivoluzioni: dalle crinoline ampie e le rigonfie sottane di fine Ottocento, le ritroviamo in vestiti morbidi e leggeri, dalle forme disinvolte a metà Novecento. E la fotografia è lì, a testimoniare i mutamenti di gusto e di diritto. In mezzo, il doppio volto della donna in epoca fascista: elegante nell’alta società, giovane e sportiva nella vita quotidiana. Chiudono le “giornate al mare” con i signori avvolti in comodi accappatoi e costumi sempre cangianti e le donne in pantaloncini. Mai muta l’abito nuziale, che con il suo percorso appartato, lontano dalla moda “reale” resiste, anche qui con le dovute differenze: c’è quello di sartoria e d’Alta moda e quello dei grandi magazzini.