La fantastica storia nera di Giuseppe, tra orchi mafiosi e fate resistenti
La Semaine de la Critique l’opera di Grassadonia e Piazza sulla morte del figlio del pentito Giuliano
Fiocchi simili a bambagia, lattiginosi, fluttuano in un’acqua melmosa, mefitica. Ma non è cotone, sono carne, ossa e tutto quel che resta di un ragazzino. 11 gennaio 1996, dopo 779 giorni di prigionia il quattordicenne Giuseppe Di Matteo, figlio del “pen tito” Santino, viene strangolato e dissolto nell’acido dal capomafia Giovanni Brusca e i suoi uomini.
QUALCHE DECENNIO fa se ne sarebbe fatto un film di impegno civile, sperabilmente à la Salvatore Giuliano e Le mani sulla città di Francesco Rosi. “Poi però la dimensione civile e impegnata nel cinema italiano è diventata ripetitiva, una maniera: non ci dice più nulla, con il risveglio delle coscienze ha niente a che fare”, e allora “storia d’amore, fiaba nera e ghost story”, allora “il genere come atto politico, il racconto come provocazione”. Fabio Grassadonia e Antonio Piazza nel 2013 con il pregevole esordio Salvo hanno conquistato due premi alla Semaine de la Critique di Cannes, quattro anni dopo – prima volta per l’Italia – la aprono: Sic ilian Ghost Story, da ieri nelle nostre sale. Nel parco dei Nebrodi, tra foreste, pozze d’acqua e orchi strappati ai Grimm, riadattano il racconto Un cavaliere biancodi Marco Mancassola ( Noi saremo confusi per sempre, Einaudi) e affidano alla compagna di classe Luna (Julia Jedlikowska), innamorata e indomita, la non rassegnazione, la resistenza all’omertà, al silenzio che tutto può e tutto uccide: Giuseppe ( Gaetano Fernandez) non vuole lasciarlo andare, e per ritrovarlo scende in un gorgo di ossessione, fantasmagoria e autodistruzione. Piazza nel 1983 venne scaraventato giù dal letto dall’autobomba che ammazzò il giudice Rocco, entrambi dopo la morte di Di Matteo, che “sublimava nella disumanità e stupidità la chiusura di un’epoca di mafia”, decisero di andarsene dalla Sicilia.
Eppure, “quella ferita è rimasta lì: era impensabile raccontarla dritto per dritto, perché non offre possibilità alcuna di redenzione. Abbiamo deciso di far collidere realtà e fantasia, senza tradire i fatti, l’amore e l’umanità: solo così riusciamo a strappare il bambino dal buio e dalla dimenticanza”.
Il tentativo è ambizioso, coraggioso e a tratti fascinoso: trasfigurare in chiave fantasy il caso Di Matteo, che frequentando le scuole dell’isola per il casting i due registi hanno appurato essere ignoto a chi oggi ha tra i 13 e i 20 anni. E, siamo onesti, a molti più cresciuti. Dunque, scordarsi “i commissari che nuotano e mangiano pasta alle sarde” (Montalbano, ndr), non lasciare alle fiction “l’abuso delle vittime di mafia” e fare di genere virtù taumaturgica, di Giuseppe un nuovo ragazzo invisibile, tragicamente tale, con i superpoteri delegati all’immaginazione artistica dietro la macchina da presa e alla re-immaginazione sociale davanti allo schermo. Cose che nella Sicilia di Leonardo Sciascia – “È tutta una fantastica dimensione e non ci si può star dentro senza fantasia”, scriveva – non possono stupire e che, sul pia- no generazionale, riaggiornano Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa: “Ora anche gli sciacalli sono andati via, rimangono i nani, a cui – lamentano Grassadonia e Piazza - è affidato il futuro dei giovani”.
INSOMMA, le intenzioni non si discutono, anzi, si lodano, ma troppo in Sicilian Ghost Story è sospeso, intorcinato, irresoluto: se l’impiego del genere è prezioso, l’utilizzo autorale che i due registi fanno del genere stesso è problematico. La drammaturgia per iterazioni, ellissi e evocazioni darebbe filo da torcere a Vladimir Propp, il celebre antropologo della Morfologia della fiaba (1928), nonché lo darà ai giovani cui si destina: bene Sicilian, bene Ghost, meno bene Story. Anche qui non possiamo stupircene troppo: il cinema italiano oggi ha soggetti persino folgoranti, ma non le sceneggiature. @fpontiggia1