Il caso Spatola, quando Giovanni seguì per la prima volta “i soldi”
Dalla Chiesa ripercorre vita e opere del pm antimafia
Falcone era di Palermo, del quartiere popolare della Kalsa, lo stesso di Paolo Borsellino. Era figlio di un irreprensibile funzionario della provincia, che si vantava con orgoglio di non avere mai messo piede in un bar. Ereditò la moralità di famiglia e l’abitudine a non mescolarsi con mondi diversi, a mantenere una propria verginità rispetto all’ambiente circostante. E già questo ne faceva un personaggio strano, sospetto. La mafia avvolge, circuisce, usa le mille sfumature del grigio, i suoi ambasciatori insospettabili: un direttore di giornale, un politico eminente, un principe del foro, finanche un magistrato. E, conoscendo come nessuno l’animo degli uomini, distingue questi ultimi in due fondamentali categorie: gli avvicinabili e gli inavvicinabili. (...) Avvicinabile non vuol dire corruttibile. Vuol dire che ci si può entrare in rapporti. Invitarlo, dargli accoglienza in una comunità brillante e generosa. Conoscerne i desideri, le debolezze, e soddisfarli. Dopo di allora qualche piccolo scambio sarà possibile. (...) Giovanni Falcone non era avvicinabile, pur essendo nato in un quartiere dove con i mafiosi si poteva crescere insieme. Raccontò di avere interrogato un giorno come imputato Tommaso Spadaro, narcotrafficante e conosciuto da ragazzo in un’associazione cattolica, che a stento tratteneva un risolino di ironia per la situazione. Lui lo intuì e lo anticipò: “Abbiamo giocato a ping pong insieme”. L’altro confermò: “Le legnate che le ho dato!”. L’infanzia o l’adolescenza in comune non impedivano né le indagini né l’uso rigoroso del “lei”. Dove comanda la mafia gli avvicinabili sono vezzeggiati, le cassette di frutta, una cassata, del pesce fresco. Gli inavvicinabili diventano invece corpi estranei (...). A Falcone successe esattamente questo. Era tornato da Trapani, dove aveva amministrato il diritto civile, alla fine degli anni settanta, andando a occuparsi di fallimenti. A fine 1979 era passato alla sesta sezione penale dell’Ufficio Istruzione, il cui capo Cesare Terranova era stato ucciso in settembre su ordine di Liggio insieme al maresciallo Lenin Mancuso.
ORA A GUIDARE L’UFFICIO c’era un giudice imponente, adamantino. Si chiamava Rocco Chinnici. Che gli affidò l’istruttoria del processo contro Rosario Spatola e altri. Spatola era più che un imprenditore mafioso. Un costruttore, come si conveniva all’e po ca , quando l’edilizia era il campo legale quasi esclusivo di affermazione del “genio” affaristico di Cosa Nostra. (...). Spatola aveva investito nei suoi affari i profitti ruggenti del traffico di droga. Ed era alleato della famiglia Inzeril- lo. Spatola-Inzerillo costituiva un binomio temibile. Proprio per avere indagato su quel binomio era stato ucciso nell’agosto dell’80 il procuratore capo Gaetano Costa. (...) Costa aveva dovuto firmare personalmente i mandati di cattura perché due suoi sostituti si erano rifiutati di farlo.
Falcone indagò s cr up ol os amente nei conti correnti, come allora non si usava. Imparò lì, e da quel momento insegnò a tutti, che “il denaro lascia tracce”. Spiegò: “Tutti all’epoca parlavano di enormi quantità di droga che partivano dalla Sicilia per gli Stati Uniti. Allora mi sono detto: ‘Se hanno venduto droga in America del Nord, nelle banche siciliane saranno rimaste tracce delle operazioni realizzate’. Così hanno avuto inizio le prime indagini bancarie”. (...) Fu così che Falcone ottenne la condanna di Spatola in un processo spesso sottovalutato.