Vite misteriose di passeggeri in metropolitana
Chissà se qualcuno si è accorto degli occhi. In verità è difficile che sia capitato e il motivo è semplice. Appena saliamo su un autobus, su un tram, su un treno, immediatamente frughiamo nelle tasche – le signore nelle borse – in cerca del cellulare. O, sarebbe meglio dire, della “salvezza dall’altro”: non sia mai che capiti d’incrociare l’altrui sguardo, dentro potrebbe esserci di tutto. Perfino uno specchio che ci rifletta la nostra stessa immagine. Dunque non è facile che qualcuno abbia notato gli occhi chiari e vispi del narratore di questo libro, I baci sono definitivi, appena pubblicato da La nave di Teseo. L’autore che guarda è Pietrangelo Buttafuoco, firma del Fatto e molte altre cose, forse soprattutto siciliano svelto di pensiero. E saltimbanco delle parole, cosa di cui ha dato prova in molti altri libri, da I cinque funerali della signora Göring e La notte tu mi fai impazzire, fino all’incantevole Il dolore pazzo dell’amore.
COS’È QUESTOnuovo libro? Non è un romanzo nel senso ortodosso del termine, eppure è così pieno di narrazione. Non è una raccolta di racconti, eppure si tratta di tante piccole trame intessute una dietro l’altra. Dovendo scegliere, diremmo un originalissimo libro di viaggio. Anzi, di viaggi. Più precisamente ancora, un viaggio nelle vite di sconosciuti passeggeri del sedile di fronte. Viaggio al centro delle anime, mentre scendono tra i corridoi brulicanti e bui della Linea A o B. Anche lì, in un vagone asettico, si può incontrare la poesia come un’insperata salvezza. Così capita di imbattersi in Saffo con il Rocci sulle gi- nocchia, mentre aiuta i ragazzi a esercitarsi prima dell’esame di greco; in cinque cadetti della Nunziatella che si sono rincorsi a suon di gavettoni di cui portano le tracce fin dentro il vagone; in una donna che canta Paolo Conte e “tiene tra le dita le ultime foglie e i pensieri d e l l’i n v e r no ”. È tutto davanti agli occhi, ma bisogna sollevarli.
B UT TA FU OCO prende anche treni da una città all’altra, aerei dalla Sicilia al Continente, e allora bisogna fermarsi a guardare anche cosa succede negli aeroporti e nelle stazioni (forse il luogo d’elezione degli amori e degli incontri, degli addii e dei baci, soprattutto di quelli definitivi). Il più commovente racconto tra i tanti – colti, onirici, poetici – è sulla SS 121 Agira/Leonforte, ed è per paradosso quello più personale, dove il narratore non può limitarsi solo a osservare perché è lui a essere guardato. “Quando ci siamo trovati insieme, io e i miei figli, sotto la bara di mio padre, portandola in spalla, abbiamo vissuto non poco fuoco. Giuseppe, sedici anni, mi scrutava per scongiurare altre mie lacrime. Saro, il grande, quello col nome del nonno, prendeva il controllo del momento. Ecco, io ero l’orfano e loro mi tenevano d’occhio perché è sempre un mettere alla prova i padri, questo fanno i figli. E questa è la loro fatica: amano raggranellando pezzi importanti di vita. (...) I figli sanno di diventare padri e non nel senso di essere un giorno genitori di altri figli, ma – assumendone con l’anima, anche i modi, i tic, la fisionomia, la sordità perfino – i figli sanno di far tornare in loro stessi, gli stessi propri padri”.