Il Fatto Quotidiano

Vite misteriose di passeggeri in metropolit­ana

- » SILVIA TRUZZI

Chissà se qualcuno si è accorto degli occhi. In verità è difficile che sia capitato e il motivo è semplice. Appena saliamo su un autobus, su un tram, su un treno, immediatam­ente frughiamo nelle tasche – le signore nelle borse – in cerca del cellulare. O, sarebbe meglio dire, della “salvezza dall’altro”: non sia mai che capiti d’incrociare l’altrui sguardo, dentro potrebbe esserci di tutto. Perfino uno specchio che ci rifletta la nostra stessa immagine. Dunque non è facile che qualcuno abbia notato gli occhi chiari e vispi del narratore di questo libro, I baci sono definitivi, appena pubblicato da La nave di Teseo. L’autore che guarda è Pietrangel­o Buttafuoco, firma del Fatto e molte altre cose, forse soprattutt­o siciliano svelto di pensiero. E saltimbanc­o delle parole, cosa di cui ha dato prova in molti altri libri, da I cinque funerali della signora Göring e La notte tu mi fai impazzire, fino all’incantevol­e Il dolore pazzo dell’amore.

COS’È QUESTOnuov­o libro? Non è un romanzo nel senso ortodosso del termine, eppure è così pieno di narrazione. Non è una raccolta di racconti, eppure si tratta di tante piccole trame intessute una dietro l’altra. Dovendo scegliere, diremmo un originalis­simo libro di viaggio. Anzi, di viaggi. Più precisamen­te ancora, un viaggio nelle vite di sconosciut­i passeggeri del sedile di fronte. Viaggio al centro delle anime, mentre scendono tra i corridoi brulicanti e bui della Linea A o B. Anche lì, in un vagone asettico, si può incontrare la poesia come un’insperata salvezza. Così capita di imbattersi in Saffo con il Rocci sulle gi- nocchia, mentre aiuta i ragazzi a esercitars­i prima dell’esame di greco; in cinque cadetti della Nunziatell­a che si sono rincorsi a suon di gavettoni di cui portano le tracce fin dentro il vagone; in una donna che canta Paolo Conte e “tiene tra le dita le ultime foglie e i pensieri d e l l’i n v e r no ”. È tutto davanti agli occhi, ma bisogna sollevarli.

B UT TA FU OCO prende anche treni da una città all’altra, aerei dalla Sicilia al Continente, e allora bisogna fermarsi a guardare anche cosa succede negli aeroporti e nelle stazioni (forse il luogo d’elezione degli amori e degli incontri, degli addii e dei baci, soprattutt­o di quelli definitivi). Il più commovente racconto tra i tanti – colti, onirici, poetici – è sulla SS 121 Agira/Leonforte, ed è per paradosso quello più personale, dove il narratore non può limitarsi solo a osservare perché è lui a essere guardato. “Quando ci siamo trovati insieme, io e i miei figli, sotto la bara di mio padre, portandola in spalla, abbiamo vissuto non poco fuoco. Giuseppe, sedici anni, mi scrutava per scongiurar­e altre mie lacrime. Saro, il grande, quello col nome del nonno, prendeva il controllo del momento. Ecco, io ero l’orfano e loro mi tenevano d’occhio perché è sempre un mettere alla prova i padri, questo fanno i figli. E questa è la loro fatica: amano raggranell­ando pezzi importanti di vita. (...) I figli sanno di diventare padri e non nel senso di essere un giorno genitori di altri figli, ma – assumendon­e con l’anima, anche i modi, i tic, la fisionomia, la sordità perfino – i figli sanno di far tornare in loro stessi, gli stessi propri padri”.

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