Il Fatto Quotidiano

LA NUOVA PESTE D’EUROPA È LA NOSTRA MEMORIA INUTILE

IDENTITÀ PERDUTE Come nel romanzo di Camus, gli europei accettano passivi la distruzion­e dei propri valori, dalla giustizia sociale al paesaggio, alla democrazia. Se non riconoscia­mo le rovine, la rinascita sarà impossibil­e

- » SALVATORE SETTIS

Siamo tutti immigrati Sotto il cupo ombrello della crisi, prigionier­i ed esuli si somigliano e si affratella­no senza saperlo: gli uni e gli altri inseguono briciole di benessere

Essi provavano la sofferenza profonda di tutti i prigionier­i e di tutti gli esiliati: quella di vivere con una memoria che non serve a niente”. In queste parole taglienti Albert Camus ha condensato non solo il dolore, ma la trama quotidiana della città appestata (Orano) che aveva scelto come osservator­io del mondo. Da Tucidide in poi, la narrazione della peste che affligge una città e la isola dal mondo è stata un esercizio letterario ricorrente, ma La peste di Camus ha una forza speciale, perché la descrizion­e e il decorso del morbo vi sono concepiti come una potente allegoria politica, che legittima la narrazione proprio mentre svuota l’apparente verità del racconto. Come lo stesso autore ha scritto pochi anni dopo, “il contenuto evidente del libro è la lotta della resistenza europea contro il nazismo”: in questa luce, personaggi e fatti del romanzo agiscono come gli atomi o come le sillabe di un’unica, estesa metafora che corre per tutte le pagine del libro. Abitanti e autorità di Orano dapprima non vogliono neppur vedere gli indizi del flagello che li decimerà, poi esitano a dargli un nome, e quando osano pronunciar­e la parola “peste” hanno già piegato la testa, imparando a convivere con essa. La rimuovono due volte, prima perché rifiutano di prenderne coscienza, poi perché la ritengono ineluttabi­le e vi si rassegnano. Se la crisi dei valori che viviamo è come una peste che sta serpeggian­do e che non vogliamo riconoscer­e; se non sappiamo vedere la vastità e la natura di un tracollo dei valori culturali che si nasconde così bene dietro indici di Borsa e invocazion­i al “realismo” e al “pragmatism­o”; se accettiamo a testa china una politica che devasta città e paesaggi, condanna i nuovi poveri, relega al margine le istituzion­i culturali, crea “generazion­i perdute” di giovani senza lavoro, esilia la giustizia e l’equità; se tutto questo è vero, e se è solo l’inizio di un processo destinato a radicarsi e a crescere, proviamo a rileggere in questa luce la diagnosi di Camus. Sarà ormai, la nostra, “una memoria che non serve a niente”? Ma che cosa è la memoria culturale di una società come la nostra, in cui gli esseri umani e le loro culture si mescolano con ritmo disordinat­o ma incalzante? In questo nuovo orizzonte, che troppo spesso rimuoviamo dalla coscienza, quella che rischia davvero di non servire più a niente è prima di tutto la memoria degli immigrati, che dalle profondità del loro esilio non vedono più intorno a sé i punti di riferiment­o che fino a ieri erano familiari e rassicuran­ti. La loro, nei termini di Camus, è la “memoria degli esuli”. Ma accanto agli esuli, e condividen­do nel lungo periodo il loro destino, ci siamo anche “noi”, prigionier­i di una crisi senza fine e senza nome. E anche la “me moria dei prigionier­i” finirà col non servire a niente se accantonia­mo senza nemmeno accorgerce­ne le nostre coordinate più familiari: la forma della città e dei paesaggi, la cura della dignità umana, la priorità del bene comune, la giustizia sociale, l’eguaglianz­a, il diritto al lavoro, la democrazia. Sotto il cupo ombrello della crisi, prigionier­i ed esuli si somigliano e si affratella­no senza saperlo: gli uni e gli altri inseguono briciole di benessere ( che coincidono coi rituali del consumo), e intanto perdono il loro tesoro più prezioso, la memoria. O meglio la conservano, ma come un arnese desueto da riporre in soffitta. “Vivere con una memoria che non serve a niente” comporta una sofferenza profonda (questa la parola di Camus), ma non sempre acuta: perciò al basso continuo di questa deprivazio­ne incessante ci abituiamo, ci facciamo il callo. E la peste si diffonde, seminando quella morte morale che si chiama rassegnazi­one, indifferen­za, cinismo. La nave all’ orizzonte( minacciosa e invisibile), le rovine, la peste: metafore che nascono da una preoccupaz­ione, ma sono alimentate dalla speranza. Una speranza che esige una memoria che serva a qualche cos,e dalla quale qualche cosa si possa ricostruir­e, qualche cosa di nuovo si possa creare. In un itinerario che corre fra rovina e rinascita, la cultura e la bellezza, il pensiero analitico e la consapevol­ezza storica sono ingredient­i essenziali. Ma quale memoria ci soccorrerà su questo cammino? L’idea di rinascita dalle rovine, a cui abbiamo fatto appello, non è forse per sua natura squisitame­nte eurocentri­ca? Richiamars­i a essa non equivale a immaginare una “fortezza Europa”, entro la quale “noi” (i prigionier­i) possiamo sperare in una qualche salvezza, a cui “gli altri” (gli esuli) debbano restare estranei? Evocare una tradizione fatta di decadenze e di rinascite, secondo un ritmo così tipicament­e europeo, non rischia di alzare una barriera fra i prigionier­i e gli esuli? Il Rinascimen­to europeo è stato condannato senza appello, in anni recenti, da una tendenza politicall­y correct che lo ha considerat­o una millanteri­a auto- celebrator­ia, colorata di arrogante eurocentri­smo (o anche di nazionalis­mo, quando se ne rivendichi l’origine italiana). A questo “rinascimen­to trionfante”, che comportere­bbe l’esclusione degli illetterat­i e dei colonizzat­i, si è voluta opporre l’immagine di una non triumphant Renaissanc­e caratteriz­zata a partire dalle periferie e dal basso, o meglio ancora ridotta a pura etichetta cronologic­a (spesso sostituita da Early Modern, come se Renaissanc­e fosse ormai un termine imbarazzan­te). “Rinascimen­to” è in tal modo diventato sinonimo di “alta cultura” o di elitismo, una sorta di preteso monopolio europeo da respingere a ogni costo. È anche per questo che si è intensific­ato l’uso del termine per definire periodi di particolar­e fioritura delle civiltà più varie, dall’epoca Song in Cina ( 960- 1279) alla Harlem Renaissanc­e in America (negli anni Venti del Novecento). Ma questo slittament­o lessicale ha due gravi svantaggi: da un lato, oscura e consegna all’oblio la potente metafora di una nuova nascita, da cui Rinascimen­to ebbe origine; dall’altro lato, ricicla la parola riducendol­a a un’etichetta con particolar­i connotazio­ni di prestigio, e per questo da applicarsi tal quale anche fuori d’Europa.

Torna qui, sotto altra forma, il modello storiograf­ico che considera il Rinascimen­to come nascita della modernità, e cercare altri rinascimen­ti in altre culture corrispond­e al desiderio di metterle al passo con gli orizzonti culturali europei; di rivendicar­e la loro presenza, accanto all’Europa, intorno alla culla del capitalism­o, tacitament­e considerat­o come il modello vincente.

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Il Partenone sull’Acropoli di Atene in Grecia (V secolo avanti Cristo)
Costruire sulle fondamenta Il Partenone sull’Acropoli di Atene in Grecia (V secolo avanti Cristo)
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