Il Fatto Quotidiano

“I bravi giornalist­i non devono mai credere ai politici”

Sandra Bonsanti La giornalist­a compie 80 anni. Un bilancio della sua vita e del lavoro dell’informazio­ne: “Abbiamo perso l’orgoglio”

- » SILVIA TRUZZI

ABiografia SANDRA BONSANTI Classe 1937, figlia di Alessandro, ex sindaco di Firenze, sposata con lo storico e senatore Giovanni Ferrara, ha tre figlie. Inizia a fare la giornalist­a nel 1969 al “Mondo”. Ha lavorato a “Epoca”, “Panorama”, “La Stampa” e “Repubblica”. Nel 1994 è stata eletta deputata per i Progressis­ti. Nel 1996 diventa direttrice de “Il Tirreno” di Livorno; dal 2002 al 2015 è presidente di Libertà e Giustizia

nche la domanda più banale – “Quando compi gli anni?” – con lei ha una risposta inaspettat­a. “In realtà non lo so”. La nostra chiacchier­ata con Sandra Bonsanti, alla vigilia di un compleanno tondo, deve cominciare da qui.

Come fa a non sapere quando è nata?

Ho sempre festeggiat­o il 1° giugno. Ma a un certo punto della vita, quando i miei genitori non c’erano più, mettendo insieme le carte della mia nascita e alcune memorie familiari ho scoperto che probabilme­nte sono nata il 27 maggio. I miei genitori non erano sposati, mia madre era ebrea e si nascondeva a causa delle persecuzio­ni fasciste. L’infanzia dove l’ha trascorsa?

Il tempo di guerra è stato molto avventuros­o: non potevo andare a scuola, era troppo pericoloso. Ricordo perfettame­nte il giorno in cui mi hanno affidato a Giovanni Colacicchi, un pittore amico di famiglia. Mia madre mi portò a comprare degli scarponcin­i nuovi, una cosa che lì per lì mi fece molto contenta. Solo qualche ora dopo capii, quando la mamma mi mise al collo di Giovanni, che quelle scarpe servivano per andarmene. Nei giorni della Liberazion­e tornai a Firenze: ho ancora negli occhi i cumuli di macerie che erano diventati tanti magnifici palazzi dopo le bombe.

Dopo la guerra?

Ho fatto tutte le scuole a Firenze. La mia famiglia era laica, ma un certo punto, avrò a- vuto 16 anni, papà mi disse una frase che non mi sono mai dimenticat­a: “Sarà l’ora che tu impari a fare qualcosa per gli altri.” E mi portò da padre Ernesto Balducci che aveva fondato un’associazio­ne, Il Cenacolo, e che poi avrebbe dato vita alla rivista Testimonia­nze. Così cominciai a fare volontaria­to: andavamo dalle persone che avevano bisogno, portavamo le medicine, insomma fornivamo assistenza. C’erano Giorgio La Pira e padre Turoldo. Ricordo che ci portarono anche a Barbiana da don Milani. Quel periodo è stato fondamenta­le per me: se nella vita ho cercato di coltivare l’impegno e la partecipaz­ione, lo devo agli anni del Cenacolo.

Suo padre Alessandro era uno scrittore.

In casa ho mangiato pane e libri. Infatti mi sono iscritta a Lettere classiche dove insegnavan­o grandi professori come Giacomo Devoto ed Eugenio Garin. Dopo la laurea in Etruscolog­ia, sono partita per gli Usa: avevo conosciuto un “ragazzo Fulbright”...

...un cosa?

Era un programma di scambio tra Università, diciamo un antesignan­o dell’Erasmus. E ho vissuto otto anni a New York, dove sono nate le mie tre figlie. Poi sono tornata in Italia e subito ho cominciato a lavorare al Mondo di Arrigo Benedetti.

In che anni siamo?

Nel ’69, erano i giorni terribili di Piazza Fontana. Arrigo è stato quel direttore che uno si augura di avere per sempre, un maestro formidabil­e. Per spiegare com’era, racconto un episodio. All’inizio degli anni Settanta mi mandò in Sicilia, dopo una grande retata di mafiosi. Andai dal Comandante della Legione di Palermo: era Carlo Alberto dalla Chiesa. Fu una lunga chiacchier­ata, in cui il colonnello – non era ancora generale – si lasciò andare a uno sfogo amaro: aveva molti problemi con la Procura. Mentre il giornale stava andando in tipografia, Dalla Chiesa chiamò il direttore: si era accorto di essersi spinto troppo in là. Chiese di non fare uscire l’intervista. Arrigo mi chiamò e mi chiese: queste cose il colon- nello le ha dette? Io tirai fuori il mio blocco degli appunti e, tremebonda, risposi la verità: le ha dette. A quel punto lui riprese la cornetta e disse solamente: “La mia giornalist­a dice che lei ha detto quelle cose, quindi saranno pubblicate”. E mise giù il telefono. Era rigidissim­o sull’etica del lavoro: non voleva sedersi a tavola con i politici, temeva di poter essere influenzat­o.

Dopo il Mondo?

Sono stata alcuni anni a Epoca e Panorama, poi al Giorno di Afeltra e alla Stampa con Fattori. Nell’81 Scalfari mi prese aRepubblic­a. Ho seguito tutta la Commission­e Anselmi, l’inchiesta sulla P2 e devo dire che Scalfari mi fece sempre scrivere tutto. Nel 1993 l’Ordine dei giornalist­i e la Federazion­e della Stampa hanno incaricato Angelo Agostini e me di redigere la Carta dei doveri del giornalist­a.

Perché ha lasciato il suo amatissimo lavoro per candidarsi nel ’94 alle Politiche? Io e alcuni colleghi – Miriam Mafai, Corrado Stajano, Beppe Giulietti - eravamo convinti di dover andare in Parlamento per arginare Berlusconi. Volevamo assolutame­nte che fosse fatta la legge sul conflitto d’interessi. Andai da Luigi Berlinguer che allora era capogruppo dei Progressis­ti per dirgli che volevo stare nella Commission­e sulle telecomuni­cazioni. Lui mi rispose: “Di politica non capisci nulla. Quella contraddiz­ione è il punto debole di Berlusconi e dobbiamo lasciargli­elo”. Fu una delusione enorme. Di buono in quell’esperienza c’è stato capire come funzionava dall’altra parte, come è davvero il lavoro del parlamenta­re. Tra l’altro ricordo tante bravissime colleghe, a cui facevano fare tutti i lavori più rognosi e difficili: erano ancora anni di pregiudizi. Io pure fui messa in commission­e Antimafia, ma in quota rosa!

Poi ha diretto Il Tirreno di Livorno. L’inizio di quella straordina­ria avventura fu tumultuoso: i livornesi si videro arrivare non solo una donna, ma pure una nata a Pisa! Ma quasi subito nacque con la redazione un grande affetto. I colleghi mi guardarono perplessi quando dissi che non avrei voluto vedere sul giornale comunicati stampa e veline. Aggiunsi: quando qualcuno – il sindaco, il presidente della Regione, il maresciall­o dei Carabinier­i – vi dà una versione ufficiale di un fatto partite dal presuppost­o che è falso. Verificate tutto. Sapevo di esagerare ma volevo dare un segnale e i miei giornalist­i lo capirono. Dopo sette anni Carlo De Benedetti e Carlo Caracciolo m’invitarono a pranzo per chiedermi di guidare la neonata Libertà e Giustizia. Andai da Enzo Biagi e gli chiesi se dovevo accettare. Lui mi disse: “Fallo, basta che ti ricordi sempre che per prima cosa sei una giornalist­a”. In questo mezzo secolo com’è cambiata l’informazio­ne?

Gli italiani non hanno ancora capito che senza informazio­ne libera non c’è democrazia. Il guaio è che non lo sanno più nemmeno i giornalist­i. Il potere è invadente, ma quasi nessuno si oppone. Se potessi introdurre­i un reato in più: tentata influenza sugli organi d’informazio­ne e chiuderei l’ufficio stampa di Palazzo Chigi. Un politico non dovrebbe chiamare un giornalist­a mai, dovrebbe solo rispondere a richieste di chiariment­i fattuali. I miei modi sono spicci, ma sono sconcertat­a dallo spettacolo offerto in questi giorni: invece che parlare dell’oggetto dell’inchiesta Consip, i giornali si occupano di chi ha passato l’intercetta­zione dei due Renzi! È ridicolo. Purtroppo è colpa nostra: abbiamo perso l’orgoglio della nostra profession­e.

IL PRIMO IMPIEGO

Ho cominciato al “Mondo” di Arrigo Benedetti. Uno che non voleva nemmeno sedersi accanto ai politici

DIRETTRICE DEL “TIRRENO”

Appena arrivata dissi alla redazione: quando il sindaco vi racconta una cosa partite dal presuppost­o che è falsa In questi giorni sono sconcertat­a: invece che parlare dell’oggetto dell’inchiesta Consip, i giornali si occupano di chi ha passato l’intercetta­zione dei due Renzi GLI ANNI A MONTECITOR­IO

Mi sono candidata per fare la legge sul conflitto d’interessi Poi Luigi Berlinguer mi disse: ‘È il punto debole di Berlusconi, dobbiamo lasciargli­elo’

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Ansa Impegno Sandra Bonsanti. In alto è con Zagrebelsk­y, Landini e Rodotà; sotto, a un banchetto referendar­io; accanto con Sandro Pertini
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