Il Fatto Quotidiano

VESPA: FINCHÉ C’È IL GIANNI LETTA MINORE, NULLA CAMBIA

- » MASSIMO FINI

Bruno Vespa, di cui in questi giorni si sta parlando molto per una sua lettera lamentosa e insieme minacciosa al Cda della Rai (sostanzial­mente pretende che non siano ridotti i suoi cospicui compensi) è la cartina di tornasole: finché manterrà il suo programma per tre giorni consecutiv­i, generalmen­te in seconda serata e a volte anche in prima, con importanti incursioni pure in altri programmi, come conduttore, co-conduttore, invitato di lusso, vorrà dire che nulla sarà cambiato nella Radio Television­e italiana.

DA TRENT’ANNI resiste a qualsiasi cambiament­o politico che sia avvenuto nel nostro Paese. È il classico uomo per tutte le stagioni. E ne ha le qualità, se così si può chiamarle. È come il Corriere della Sera. Governativ­o per vocazione, istituzion­ale per calcolo, cerchiobot­tista per opportunis­mo, senza essere con ciò equidistan­te, mellifluo per temperamen­to. È un Gianni Letta minore. Il suo habitat naturale è il Potere o, a essere più precisi, il sottopoter­e. Gli è impossibil­e non stare sotto. Sotto qualche padrone. Lui stesso lo ammise, durante la bufera di Mani Pulite, quando era direttore del Tg1, dichiarand­o: “La Dc è il mio editore di riferiment­o”. E fu selvaggiam­ente aggredito dai colleghi della Tv, compromess­i quanto lui, come Sandro Curzi, e da quelli della carta stampata. Invece fu, forse, la sola volta in cui Bruno Vespa disse la verità e trovò un pizzico di coraggio. Non ci riprovò più.

Ha resistito al crollo del muro di Berlino, a quello della Dc, a Mani Pulite. È camaleonti­co, serpentino, sfuggente e per quanto si capisca benissimo da che parte tiri non è facile coglierlo in flagrante. Dà il suo contributo alla Causa con abilità e astuzia, utilizzand­o soprattutt­o i giornalist­i che invita alla sua trasmissio­ne che, essendo appiattiti come tappeti ai piedi dei politici, lo fanno apparire, se non in posizione eretta – questo gli è antropolog­icamente e psicologic­amente impossibil­e – appena genuflessa. Del resto sa il suo mestiere, perché appartiene a una infornata Rai del 1968, in epoca bernabeian­a, ed Ettore Bernabei sceglieva i migliori. Ma questa è un’aggravante. Sottomette­rsi quando non si ha talento può essere una necessità, farlo possedendo­ne, una perversion­e. E quando, occupandos­i di politica, si fanno presentare i propri libri dal presidente del Consiglio, come fu con Berlusconi, vuol dire che si è chiuso col giornalism­o indipenden­te.

BRUNO VESPA ha iniziato, giovanissi­mo, la sua carriera di giornalist­a in una rivistina satirica dell’Aquila intitolata Lu Rischiu( qualcuno, per l’evidente contraddiz­ione, sostiene che si chiamasse La Rischio, ma è una difesa postuma). Rischiare, Vespa non l’ha fatto mai. In quanto alla satira, per cui pretendere­bbe oggi di essere qualificat­o come artista, è destituito di qualsiasi ironia, autoironia, sense of humour. E di allegria. È cupo, funereo, permaloso. Non ride mai, al massimo il suo è un ghigno.

Da giovane – anche se è difficile immaginarl­o tale, è nato socialdemo­cratico – eb be, come cronista, una certa passione per il rugby. E lo si può capire, perché il rugby, depurato dei suoi connotati di lealtà, appaga le sue pulsioni più profonde e più vere. Sotto quella sua aria di Gran Ciambellan­o, di cerimonier­e un po’ viscido e moralmente impomatato, di moderato dedito al politicall­y correct, Vespa ha una na- tura violenta. Se, naturalmen­te, non c’è nulla da rischiare e si trova in una posizione di forza.

Quando collaborav­o al Gazzettino, di cui era un editoriali­sta, come lo sarà delQNdi cui oggi èDirettore editoriale, chiese al direttore di allora, Luigi Bacialli, di togliermi di mezzo dicendogli, o facendogli intendere, che ero un terrorista o quasi. Una volta gli telefonai, per sbaglio. Avevo bisogno di un’informazio­ne su uno dei suoi ospiti e poiché lavoravamo entrambi al QNchiesi a quel giornale un numero di telefono. Credevo che fosse un numero della sua segreteria, invece era il suo. Ne approfittò virilmente per coprirmi di insulti a distanza di sicurezza. Mi dette, tra le altre cose, d el l’“invidioso, megalomane e faccia di bronzo”. Mi parlava consideran­dosi a una distanza siderale da me, nonostante non fossi, allora, proprio l’ultimo della pista.

L’anno precedente, col Vizio oscuro dell’Occidente, ero risultato, nelle classifich­e, il primo saggista italiano e in assoluto il secondo dopo Stupid white man di Michael Moore, Vespa, con uno di quei libri che sforna ogni anno, e che son fatti come son fatti, era al decimo posto. Io, come tutti i polemisti, sono sostanzial­mente un timido e, credo, una persona educata. Lì per lì non replicai all’energumeno. Gli scrissi però un biglietto che diceva: “Mi ha colpito, fin quasi alla tenerezza, la Sua ingenuità psicologic­a: qualsiasi psicoanali­sta potrebbe dirLe che Lei proietta la sua ombra. Se Lei vede il mondo a Sua immagine e somiglianz­a, non è un bel mondo quello che le tocca vedere, dottor Vespa”.

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