Una nuova Rai può nascere solo senza la politica
“Mi colpirebbe positivamente un governo che mettesse da subito in cantiere una riforma del settore televisivo”
(da “Oggi è un altro giorno” di Giovanni Floris – Rizzoli, 2013 – pag. 95)
Non si poteva immaginare una scenografia più allegorica per rappresentare la crisi cronica della Rai, a distanza di appena due anni dalla “riformicchia” del governo Renzi. Per rassegnare le sue dimissioni, il primo amministratore delegato e direttore generale con pieni poteri nominato da Palazzo Chigi, Antonio Campo Dall’Orto, ha dovuto aspettare la convocazione al ministero dell’Economia, azionista pressoché totalitario dell’azienda. E così, la politica ha trovato il modo di mettere in scena la telenovela infinita di un servizio pubblico subalterno al governo.
Bocciato dal Consiglio di amministrazione, messo sotto accusa dall’Autorità anticorruzione e dai revisori dei conti per aver provocato un “inquantificabile danno reputazionale” e anche “danni concreti per l’azienda” con le assunzioni esterne in conflitto d’interessi, il “super dg” non aveva altra scelta. Ha dovuto prendere atto dei suoi errori, ma soprattutto del fallimento di una pseudo-riforma che – se possibile – è riuscita a peggiorare la situazione. Non gli poteva bastare, evidentemente, l’effetto benefico sull’ultimo bilancio che chiude con un utile di 18,1 milioni di euro, prodotto in realtà dall’introduzione del canone nella bolletta elettrica e quindi dal crollo dell’evasione.
Proprio questo “cash flow” doveva diventare il presupposto per un’inversione di tendenza nella gestione della Rai. Una volta garantite le entrate attraverso l’obbligo fiscale, con un aumento di 200 milioni di euro all’anno, i cittadini abbonati avevano e hanno tutto il diritto di pretendere un servizio pubblico degno di questo nome. Cioè, autonomo e indipendente.
DIRE CHE IL CONTROLLOdella politica sulla Rai ha dato risultati “poco lusinghieri”, come ha ammesso recentemente il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda, è quantomeno un eufemismo. Questo è vero da sempre e l’abbiamo ripetuto per anni in tutte le salse, con qualsiasi governo, di centrosinistra o di centrodestra. A maggior ragione l’abbiamo detto e scritto per quello guidato da Metto Renzi, artefice di una riforma che – contro le sentenze della Corte costituzionale a tutela del pluralismo – ha trasferito la governance dell’azienda dal Parlamento all’esecutivo.
Con buona pace del presidente della Commissione parlamentare di Vigilanza, Roberto Fico, che evidentemente non ha vigilato abbastanza, la nomina di Campo Dall’Orto è stata un errore dall’inizio alla fine. A questo punto, sarebbe opportuno scegliere un nuovo direttore generale dall’interno: un traghettatore, insomma, per garantire una tregua, in vista ormai delle prossime elezioni.
In ogni caso, la situazione non potrà cambiare sostanzialmente fino a quando la Rai resterà sottoposta al controllo della politica e del governo. C’è solo una strada maestra per modificare la governance. Trasferire il pacchetto azionario dal ministero dell’Economia a una Fondazione rappresentativa dell’articolazione sociale: mondo accademico e culturale, informazione, spettacolo, consumatori, ambientalisti. Insediare un consiglio di amministrazione composto da cinque membri e nominare un amministratore delegato che risponda esclusivamente al Cda, affiancato magari da un direttore editoriale. Nell’ottica di una ristrutturazione di questo genere, sarà possibile ridefinire la mission di un servizio pubblico che deve avere necessariamente il suo core business nell’informazione.