Niente panico, siamo inglesi Da Cardiff a Roma senza imprevisti
Il ritorno in Italia nella notte: “In aeroporto massima calma e organizzazione”
Aeroporto
di Heathrow, Londra, 05.30 del mattino di domenica: dopo una notte attraverso le paure dell’Europa, e la responsabile efficienza dei sudditi di Sua Maestà, provo ad infilare il passaporto nel lettore automatico: una diavoleria introdotta anche in Italia, che affida ad un pc il compito di capire se tu sei davvero quello della foto.
S’ACCENDE IL VERDE, la porta a scatto si apre, entro in una specie di camera di compensazione dove una camera mi scruta. Improvvisamente, s’accende il rosso, suona l’allarme: quello del passaporto non sono io, sentenzia il computer. Ho un attimo di ansia: “Questi sono nervosi, ci sono appena stati attacchi e vittime. Che faccio?, che mi succede ora?”.
La poliziotta si avvicina: “Faccia un passo indietro, signore”, dice, essenziale, ma gentile; e riapre la porticina dietro di me. Mi guarda, guarda il passaporto: “Sono gli occhiali”, mi spiega, ne porto un paio diverso da quello della foto. “Vada allo sportello 5”, dove c’è un agen- te che fa i controlli vecchia maniera: è tutto a posto, “Buon Viaggio, signore. Arrivederci”. Aspettando l’imbarco, ripercorro il film delle ultime ore di questa “avventura gallese” a infausto fine tramutatasi in un’“a v ve nt u r a inglese” al tempo dei terroristi jihadisti. Uno fra decine di migliaia come me, ho attraversato il Sud de ll ’ In ghi lt err a, da Cardiff, nel Galles, a Londra, via Bristol, o Swindon, la notte che soldati del Califfo più o meno scientemente arruolati avevano di nuovo colpito nella capitale britannica, facendo almeno sette vittime e decine di feriti in episodi a catena correlati. Le notizie di quanto stava avvenendo, era appena avvenuto, arrivavano pure nello stadio della finale della Coppa dei Campioni, il Millennium Stadium, chiuso come una serra per il timore di attacchi con droni: dentro, maniche corte e una ventina di gradi; fuori, scrosci di pioggia e 10 gradi. Le informazioni sono inizialmente confuse, un furgone bianco assassino sul Ponte di Londra, dove tutti siamo stati; attacchi all’arma bianca in un’area da movida lì accanto; molti morti, tre terroristi uccisi, stazioni della metropolitana chiuse.
GLI SMS DA CASA invitano alla prudenza, preparano al peggio: “Londra – riferisce chi segue in tv o sui social – è in lockdown”. La gente si prepara a un viaggio di ritorno da incubo: controlli, disagi, ritardi. Chi con l’orgoglio della vittoria in Coppa, chi con il groppo della sconfitta in gola, ciascuno elabora la prospettiva e la accetta: Brexit o non Brexit, questa è l’Europa oggi. E, in-
L’incidente
Il lettore di documenti segnala un problema. La polizia: “Buon viaggio, signore”
vece, funziona tutto perfettamente: i treni e i pullman sono in perfetto orario; la metro funziona al di fuori dell’area dell’attacco -; le code d’accesso – una specialità britannica – sono organizzate e gestite; i poliziotti e gli addetti alla sicurezza, presenti ovunque, sono efficienti e mai bruschi. All’una di notte, a Cardiff, di- stribuiscono metalline contro il freddo. Alle tre del mattino, a Reading, a sud-est di Londra, quando sta per albeggiare, scortano i viaggiatori in transito da una sala d’aspetto all’altra per evitare attese all’addiaccio. Alle cinque, all’aeroporto di Heathrow, non c’è segno di militarizzazione. Ovunque, gli schermi informa- no degli sviluppi di quanto accaduto: immagini e testimonianze dal Ponte di Londra e dal rione degli accoltellamenti, la conta delle vittime che sale.
LA GENTE DEL POSTO, chi è al lavoro, chi ci va, è informata: per la terza volta in poco più di due mesi, la seconda in meno di due settimane, dopo il raid sul ponte di Westminster e il tentativo d’irruzione nella sede del Parlamento, dopo la strage delle ragazzine al concerto Manchester, la Gran Bretagna è sotto attacco. E reagisce con la stessa ostinata silenziosa determinazione dei londinesi al tempo della battaglia d’Inghilterra, sotto le bombe e i razzi nazisti.