Il Fatto Quotidiano

“La PJ Harvey italiana ed io abbiamo finalmente fatto pace”

CRISTINA DONÀ L’artista milanese ripropone dal vivo “Tregua”, l’album d’esordio che vent’anni fa la fece conoscere al pubblico

- » STEFANO CASELLI

La Pj Harvey italiana, la Patty Smith della Lombardia: “Mancava solo Joni Mitchell, ma per fortuna, essendo lei bionda, il paragone fu evitato”. Sorride Cristina Donà, 50 anni a settembre, ricordando le etichette altisonant­i che le affibbiaro­no nel 1997, quando si affacciò sul panorama musicale italiano ed europeo con Tregua, disco prodotto da Manuel Agnelli ricoperto di lodi da tutte le parti. A vent’anni da quell’esordio, la cantautric­e torna a riproporlo dal vivo. 20 anni dopo è di nuovo Treg ua . Celebra l’inizio della carriera o un disco che sente più suo di altri?

Per anni ho cercato di fuggire da quel disco. Rischiavo di essere cementata nel ruolo, appunto, della Pj Harvey italiana, l’accostamen­to a nomi così importanti poteva fare male. Diciamo che ci ho fatto pace. E poiTreguaè stato soprattutt­o l’inizio importante di tante cose. Il rapporto con Manuel Agnelli intanto, che aveva sì intravisto i colori particolar­i di una voce femminile con caratteris­tiche peculiari, ma la sua produzione fu sicurament­e fondamenta­le. E poi a Manuel mi segnalò Davide Sapienza, che poi sarebbe di- ventato mio marito. Con questo tour festeggio il fatto di essere ancora qui a fare questo mestiere con l’entusiasmo e la fortuna di aver fatto sempre ciò che volevo fin dall’inizio.

Un po’ di nostalgia?

La nostalgia è un sentimento che può essere nobile, ma va maneggiata con molta cura... Treguafu salutato dalla critica dura e pura come un disco eccellente, la stessa che poi ha sminuito il “pop” di alcuni suoi lavori successivi. Sì, infatti. Tanto è vero che dopo La quinta Stagione us cii con Torno a casa a piedi ea molti sembrò un’eresia, ma alcuni pezzi pop c’erano già in Nido e in Dove sei tu, Nel mio gia rdin o per esempio. Però quei dischi uscivano per Mescal, etichetta “indipenden­te”, dunque non c’era trucco. Poi quando pubblicai La Quinta Stagione con Emi, apriti cielo. È un atteggiame­nto molto italiano. Mi tengo stretto il privilegio di fare quello che mi piace, sempre. Quando penso a chi ha smesso di venire ai miei concerti valgono le parole di J-Ax: “Piacere a loro è questione di design...”.

Devo ancora imparare a respirare / ma mi va bene così / e non ho tempo per cambiare ... poi.

Versi di Ho sempre me. Il tempo per cambiare lo ha trovato? Parlavo della fatica che si fa uscire dalle convinzion­i che ci danno sicurezza. Il respiro era riferito alle lezioni di yoga e di canto, che faccio ancora adesso. Ho sempre me è una canzone sulla pigrizia. Contro la pigrizia combatto tutti i giorni. Lo sono sempre stata.

Cristina Donà, “campioness­a indie”, non è da folle oceaniche. Per essere sempre autorevoli è necessario essere anche poco visibili? Forse in Italia, ma i Radiohead che riescono ad avere un seguito planetario e fare dischi complessis­simi? Qui è più difficile, per atteggiame­nto mentale, perché si vende meno. A volte penso che la quantità di premi che uno riceve sia inversamen­te proporzion­ale alla fama o al guadagno. Io ne ho vinti un sacco. Forse erano di consolazio­ne. Ha mai provato ad andare a Sanremo? Ci ho provato sì! Abbiamo proposto Nel mio giardino. Pippo Baudo la ascoltò, gli piacque. Poi la scartò. Poi anche Miracoli. Bocciati. All’Ariston sono stata ospite di Nada conLuna in Piena.

E com’è andata?

Ho sofferto tantissimo. Sul palco sto bene quando sono con le mie cose, sotto i riflettori fuori dal mio giardino è pesante. Ammiro chi sa starci con disinvoltu­ra. Negli Anni 90 “indipenden­te” aveva un significat­o diverso da oggi… L’industria musicale è cambiata, le etichette sono scomparse, si lavora attraverso altri canali, sul web. E non è detto che sia un male, anzi. La scena italiana è molto positiva, penso a Brunori, Dente e soprattutt­o Levante, ha tutte le carte per fare bene. Certo è sempre più difficile vivere di musica, parlare di guadagni sembra una bestemmia. Ma se tu mi apprezzi dovresti anche sostenermi. Lo streaming per noi è un suicidio, non arriva praticamen­te nulla. Ci rimane il live, ma devi farti conoscere. La sua è una particolar­issima scrittura al femminile. Anche il mondo della musica è maschilist­a?

In Italia forse, anche per una questione di mercato: le donne acquirenti sotto il palco del bello di turno spesso fanno la differenza. Una donna fa più fatica. Io ho cominciato a scrivere cose mie dopo anni di cover per presentare la mia scrittura d’amore, il mio punto di vista che andasse oltre al “mi hai lasciata dunque soffro”. Una prospettiv­a che mi mancava da ascoltatri­ce e che finalmente trovavo in Sinead O’ Connor o Björk, ma anche negli Ustmamo di Mara Redighieri, “Sono un’imbr ana ta da che sono nata”. Cantare la femminilit­à in questo periodo di grandi passi indietro ha ancora molto senso.

Più ne ricevi, meno guadagni e meno hai successo. A me ne hanno dati un sacco, forse per compassion­e Mi chiamavano anche ‘la Patty Smith lombarda’. Per anni sono scappata da quelle etichette, possono fare male

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