“La PJ Harvey italiana ed io abbiamo finalmente fatto pace”
CRISTINA DONÀ L’artista milanese ripropone dal vivo “Tregua”, l’album d’esordio che vent’anni fa la fece conoscere al pubblico
La Pj Harvey italiana, la Patty Smith della Lombardia: “Mancava solo Joni Mitchell, ma per fortuna, essendo lei bionda, il paragone fu evitato”. Sorride Cristina Donà, 50 anni a settembre, ricordando le etichette altisonanti che le affibbiarono nel 1997, quando si affacciò sul panorama musicale italiano ed europeo con Tregua, disco prodotto da Manuel Agnelli ricoperto di lodi da tutte le parti. A vent’anni da quell’esordio, la cantautrice torna a riproporlo dal vivo. 20 anni dopo è di nuovo Treg ua . Celebra l’inizio della carriera o un disco che sente più suo di altri?
Per anni ho cercato di fuggire da quel disco. Rischiavo di essere cementata nel ruolo, appunto, della Pj Harvey italiana, l’accostamento a nomi così importanti poteva fare male. Diciamo che ci ho fatto pace. E poiTreguaè stato soprattutto l’inizio importante di tante cose. Il rapporto con Manuel Agnelli intanto, che aveva sì intravisto i colori particolari di una voce femminile con caratteristiche peculiari, ma la sua produzione fu sicuramente fondamentale. E poi a Manuel mi segnalò Davide Sapienza, che poi sarebbe di- ventato mio marito. Con questo tour festeggio il fatto di essere ancora qui a fare questo mestiere con l’entusiasmo e la fortuna di aver fatto sempre ciò che volevo fin dall’inizio.
Un po’ di nostalgia?
La nostalgia è un sentimento che può essere nobile, ma va maneggiata con molta cura... Treguafu salutato dalla critica dura e pura come un disco eccellente, la stessa che poi ha sminuito il “pop” di alcuni suoi lavori successivi. Sì, infatti. Tanto è vero che dopo La quinta Stagione us cii con Torno a casa a piedi ea molti sembrò un’eresia, ma alcuni pezzi pop c’erano già in Nido e in Dove sei tu, Nel mio gia rdin o per esempio. Però quei dischi uscivano per Mescal, etichetta “indipendente”, dunque non c’era trucco. Poi quando pubblicai La Quinta Stagione con Emi, apriti cielo. È un atteggiamento molto italiano. Mi tengo stretto il privilegio di fare quello che mi piace, sempre. Quando penso a chi ha smesso di venire ai miei concerti valgono le parole di J-Ax: “Piacere a loro è questione di design...”.
Devo ancora imparare a respirare / ma mi va bene così / e non ho tempo per cambiare ... poi.
Versi di Ho sempre me. Il tempo per cambiare lo ha trovato? Parlavo della fatica che si fa uscire dalle convinzioni che ci danno sicurezza. Il respiro era riferito alle lezioni di yoga e di canto, che faccio ancora adesso. Ho sempre me è una canzone sulla pigrizia. Contro la pigrizia combatto tutti i giorni. Lo sono sempre stata.
Cristina Donà, “campionessa indie”, non è da folle oceaniche. Per essere sempre autorevoli è necessario essere anche poco visibili? Forse in Italia, ma i Radiohead che riescono ad avere un seguito planetario e fare dischi complessissimi? Qui è più difficile, per atteggiamento mentale, perché si vende meno. A volte penso che la quantità di premi che uno riceve sia inversamente proporzionale alla fama o al guadagno. Io ne ho vinti un sacco. Forse erano di consolazione. Ha mai provato ad andare a Sanremo? Ci ho provato sì! Abbiamo proposto Nel mio giardino. Pippo Baudo la ascoltò, gli piacque. Poi la scartò. Poi anche Miracoli. Bocciati. All’Ariston sono stata ospite di Nada conLuna in Piena.
E com’è andata?
Ho sofferto tantissimo. Sul palco sto bene quando sono con le mie cose, sotto i riflettori fuori dal mio giardino è pesante. Ammiro chi sa starci con disinvoltura. Negli Anni 90 “indipendente” aveva un significato diverso da oggi… L’industria musicale è cambiata, le etichette sono scomparse, si lavora attraverso altri canali, sul web. E non è detto che sia un male, anzi. La scena italiana è molto positiva, penso a Brunori, Dente e soprattutto Levante, ha tutte le carte per fare bene. Certo è sempre più difficile vivere di musica, parlare di guadagni sembra una bestemmia. Ma se tu mi apprezzi dovresti anche sostenermi. Lo streaming per noi è un suicidio, non arriva praticamente nulla. Ci rimane il live, ma devi farti conoscere. La sua è una particolarissima scrittura al femminile. Anche il mondo della musica è maschilista?
In Italia forse, anche per una questione di mercato: le donne acquirenti sotto il palco del bello di turno spesso fanno la differenza. Una donna fa più fatica. Io ho cominciato a scrivere cose mie dopo anni di cover per presentare la mia scrittura d’amore, il mio punto di vista che andasse oltre al “mi hai lasciata dunque soffro”. Una prospettiva che mi mancava da ascoltatrice e che finalmente trovavo in Sinead O’ Connor o Björk, ma anche negli Ustmamo di Mara Redighieri, “Sono un’imbr ana ta da che sono nata”. Cantare la femminilità in questo periodo di grandi passi indietro ha ancora molto senso.
Più ne ricevi, meno guadagni e meno hai successo. A me ne hanno dati un sacco, forse per compassione Mi chiamavano anche ‘la Patty Smith lombarda’. Per anni sono scappata da quelle etichette, possono fare male