Salim Shaheen, l’Afghanistan ha il suo Merola
A BOLOGNAPer il Biografilmfestival il film di Sonia Kronlund sulla vita e il lavoro di Salim Shaheen, il grande affabulatore per immagini. Uno dei più bei calci in faccia alla guerra
Il figlio impossibile di Mario Merola, Ed Wood e Martin Scorsese si chiama Salim Shaheen, vive e lavora in Afghanistan, ha diretto, prodotto e interpretato 110 film rigorosamente di serie Z, tutti spari, azione e canzoni. E ha anche suggerito il titolo del primolav o rodi cui è“solo” protagonista: l’irresistibile Nothingwo od, diretto dalla reporter e regista francese Sonia Kronlund, in autunno in sala oggi al Bi og ra film festival di Bologna dopo esse restato scoperto e applaudito da un pubblico letteralmente in delirio alla Quinzaine di Cannes.
A GIUSTIFICARE tanto entusiasmo basterebbe la personalità debordante di questo clone afghano del re della sceneggiata napoletana, Mario Merola appunto. Ma nel film di Sonia Kronlund, che segue il suo eroe su e giù per l’Afghanistan mentre gira un film “autobiografico” (notizia da prendere con le molle: Shaheen è un grande affabulatore, la verità è solo l’altra faccia della finzione), c’è molto di più malgrado il titolo. “In America hanno Hollywood, in India c’è Bollywood, qui in Afghanistan invece non abbiamo niente: siamo aN othingwood”.C on questa filosofia di vita, unita a un misto di coraggio e mitomania nutrito da un fatalismo squisitamente orientale (“È tutto scritto dal giorno in cui nasci, inutile preoccuparsi per le mine o i kalashnikov”), l’incontenibile Shaheen ha girato più di 100 film e si è conquistato un posto nel cuore del pubblico del suo Paese. Un pubblico tutto maschile, come si vede in Nothingwood, che in quei film ingenui ed eccessivi ritrova se stesso, i suoi sogni, la sua voce. Facendosi allegramente beffe, fra l’altro, dei talebani. Pronti a proibire ogni immagine e figuriamoci il cinema, ma anche a scaricare i suoi film nei loro smartphone, per guardarseli in santa pace, e a co ntr abba nda re per lucro i dvd del loro beniamino come racconta proprio No t hi ngwood.
È il “lato Scorsese” di questo cineasta totale, che non ha mai davvero imparato a leggere e a scrivere, anche se non lo ammetterà mai apertamente, ed è abbastanza furbo da dichiarare, ogni volta che si sposta nel suo Paese martoriato, “mia madre era o- riginaria di questa regione”... Ma ha avuto anche il fegato di ricominciare le riprese subito dopo aver visto i missili fare strage sul suo set. Ed è perfettamente consapevole del peso politico e civile del suo cinema così irrealistico e fantasioso. Purché si mettano da parte le nostre categorie occidentali per entrare nella testa e nella pancia di un uomo che adora Rambo ( lo chiama proprio Rambo, non Stallone), Bollywood, i film di kung fu. E traspone le sue passioni in un mestiere che esercita giorno per giorno, infaticabilmente, coinvolgendo tutta la sua famiglia (inutile chiedergli di riprendere le sue due mogli però: stranamente non sono mai in casa). Magari improvvisando un numero musicale sotto una cascatella scoperta per caso (“Tu gira, prima o poi ci servirà”). O affidando al fool del colorito caravanserraglio che lo accompagna, il ruolo di... sua madre. Proprio così, perché al regista più famoso d’Afghanistan è concesso tutto: anche usare un attore gay fino alla caricatura in un paese in cui il concetto stesso di omosessuale è tabù.
È L’ALTRO POLO di No t hi ngwood, il volto complementare al machismo chiassoso di Shaheen, il personaggio che proietta definitivamente questo documentario nel cielo delle favole che toccano la verità, è proprio il suo affezionato compagno di avventure Qurban Ali. Un marcantonio dai modi più che effeminati, celebre in patria anche come star del programma tv “Mia cugina”, format “nato per favorire l’emancipazione femminile e combattere i matrimoni combinati”. Ma anche premuroso padre di famiglia, con tanto di moglie (“Oh, una basta e avanza!”) e figlie, che sul set fa sganasciare la troupe ancor prima degli spettatori. E sembra anche lui tutt’altro che ignaro dei privilegi e dunque del peso sociale di cui gode il suo personaggio. Anche perché la Kronlund, fra un ciak e una chiacchiera, non smette di ricordarci, sottovoce, che l’Afghanistan è in guerra da più di 30 anni. “Dal 2000 in poi sono tornata da questo Paese con storie di massacri, lapidazioni, donne sfregiate con l’acido. Poi ho sentito parlare di Salim e dei suoi 110 film”. Il 111° lo hanno fatto insieme. Con una curiosità, uno stupore e un rispetto reciproci, che sono uno dei più bei calci in faccia alla guerra che si possano immaginare.
Famosissimo È il regista più amato nel suo Paese e a lui tutto è concesso: anche dirigere un attore gay