LA MERITOCRAZIA NON È PIÙ DI SINISTRA
NUOVE PAURE I progressisti sono in crisi perché non basta più promettere l’eguaglianza delle opportunità. Il ruvido linguaggio di Trump che parla di vincitori e vinti è molto più contemporaneo
L’impennata di populismo negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Europa è una reazione alle élite dei partiti mainstream, ma le sue vittime più illustri sono stati i partiti liberali e di centro sinistra: i democratici in America, i laburisti in Gran Bretagna e i socialisti in Francia, il cui candidato alla presidenza ha ottenuto nelle recenti elezioni solo il sei per cento dei voti. Prima di poter sperare di riconquistare il consenso dell’opinione pubblica, i partiti progressisti devono ripensare la propria missione e i propri obiettivi. Imparare dalla protesta populista che li ha scalzati, non replicandone la xenofobia e lo stridente nazionalismo, ma prendendo sul serio i legittimi risentimenti a cui quegli orribili sentimenti sono indissolubilmente legati. Elencherò quattro temi con cui i partiti progressisti dovranno fare i conti se veramente sperano di rispondere alla rabbia e al rancore che intorbidano la politica attuale.
Ineguaglianza di reddito. La risposta standard all’ineguaglianza è l’invito a maggiori pari opportunità: riqualificazione dei lavoratori le cui attività si sono perse per colpa della globalizzazione e della tecnologia; miglioramento dei sistemi di accesso all’istruzione superiore; rimozione delle barriere di razza, etnia e gender. Il tutto è sintetizzato nello slogan secondo cui chi lavora duro e rispetta le regole dovrebbe essere in grado di arrivare fin dove lo porterà il suo talento. Ma è uno slogan che oggi suona falso. Nell’economia attuale, non è facile emergere. Per tradizione gli americani, rispetto agli europei, si sono sempre preoccupati meno dell’ineguaglianza, nella convinzione che, quale che fosse il proprio punto di partenza nella vita, fosse sempre possibile, lavorando duro, passare dalle stalle alle stelle. Oggi, però, questa fede non è più così certa. Gli americani nati da genitori indigenti tendono a restare poveri anche da adulti. Il 43 per cento dei nati nell’ultimo quinto della scala di reddito rimarrà lì, e solo il 4 per cento riuscirà a raggiungere il primo quinto. È più semplice sfuggire alla povertà in Canada, Germania, Svezia e altri Paesi europei che non negli Stati Uniti.
Ecco perché la retorica delle opportunità non riesce più a ispirare come una volta. I progressisti dovrebbero ripensare il proprio postulato che vede nella mobilità una forma di compensazione all’ineguaglianza. Dovrebbero affrontare in maniera diretta le disparità di potere e ricchezza, più che accontentarsi del progetto di aiutare la gente a risalire una scala i cui gradini sono sempre più distanti fra loro.
Hubris della meritocrazia. La perenne enfasi posta sulla creazione di una giusta meritocrazia, in cui la posizione sociale rispecchi l’impegno e il talento, ha un effetto corrosivo sul modo in cui interpretiamo il nostro successo (o, viceversa, la sua mancanza). Il concetto secondo cui il sistema premierebbe il talento e il duro lavoro incentiva i vincitori a ritenere i propri successi tutta farina del proprio sacco e a guardare dall’alto in basso chi è meno fortunato di loro. Chi perde può lamentarsi che il sistema è truccato, e che chi ha avuto la meglio ha ingannato per raggiungere la vetta. O può covare la demoralizzante convinzione che il fallimento sia tutta colpa sua, che gli manchino talento e volontà per farcela.
Quando questi sentimenti coesistono, generano un mix instabile di rabbia e risentimento contro le élite, che alimenta la protesta populista. Sebbene sia lui stesso un miliardario, Donald Trump capisce quel risentimento, e ne approfitta. Al contrario di Barack Obama e Hillary Clinton, che parlavano incessantemente di “opportunità”, Trump non pronuncia quasi mai questa parola. Il suo è un rude parlare di vincitori e sconfitti.
La dignità del lavoro. Il calo occupazionale a fronte del progresso tecnologico e dell’outsourcing ha coinciso con la sensazione che la società accordasse meno rispetto al tipo di attività in genere svolte dalla classe operaia. Via via che l’economia è passata dal produrre cose al maneggiare soldi, e la società ha iniziato a riempire di compensi da capogiro i manager dei fondi di investimento e i banchieri di Wall Street, la stima che un tempo si attribuiva al lavoro nella sua accezione più tradizionale si è fatta debole e incerta.
Le nuove tecnologie rischiano di erodere ulteriormente la dignità del lavoro. Alcuni visionari della Silicon Valley prefigurano un tempo in cui robot e intelligenza artificiale avranno reso molti dei lavori di oggi e suggeriscono di pagare a tutti un reddito minimo. Quello che un tempo veniva giustificato come rete di salvataggio per tutti i cittadini, viene ora proposto come modo per mitigare il passaggio a un mondo senza lavoro. Se questa sia una prospettiva da accogliere con favore o alla quale opporre resistenza sarà un tema centrale per la politica degli anni a venire.
Patriottismo e comunità nazionale. Gli accordi sul libero commercio e l’immigrazione sono le due principali bestie nere della furia populista. Per i detrattori, gli accordi sul libero commercio e l’immigrazione minacciano il lavoro autoctono e i salari, mentre i fautori sostengono che aiutino l’economia sul lungo termine. La foga che questi temi suscitano, però, indica che in ballo c’è qualcosa di più. I lavoratori convinti che il proprio Paese tenga più alle merci e alla manodopera a basso costo che non alle prospettive occupazionali della propria gente si sentono traditi. Questo senso di tradimento spesso si traduce in odio per gli immigrati, stridulo nazionalismo teso a denigrare musulmani e altri outsider, retorica del “riprendiamoci il nostro Paese”. I liberali rispondono condannando la retorica dell’odio e insistendo sulle virtù del mutuo rispetto e della comprensione multiculturale. Ma questa loro replica di sani principi, per quanto valida, non coglie tutta una serie di importanti questioni implicite nelle rimostranze populiste. Che significato morale hanno, ammesso che ce l’abbiano, i confini nazionali? Dobbiamo di più ai nostri connazionali e meno ai cittadini di altre nazioni? Nell’era globale, dovremmo coltivare le identità nazionali o piuttosto aspirare a un’etica cosmopolita di portata umana universale?
Sono interrogativi che possono apparire sconfortanti. Ma la fase Trump sottolinea l’esigenza di un ringiovanimento del discorso pubblico democratico, un bisogno di rispondere alle grandi questioni che la gente ha a cuore, comprese quelle di carattere morale e culturale.
Ogni tentativo di affrontare tali questioni, ogni sforzo per riconfigurare i termini del discorso pubblico democratico, deve fare i conti con un potente ostacolo: l’imperativo a ripensare la premessa fondamentale del liberalismo contemporaneo. Dobbiamo abbandonare l’idea che la via a una società della tolleranza passi dall’evitare di lasciarsi coinvolgere, in politica, da stringenti argomentazioni morali.