Il Fatto Quotidiano

LA MERITOCRAZ­IA NON È PIÙ DI SINISTRA

NUOVE PAURE I progressis­ti sono in crisi perché non basta più promettere l’eguaglianz­a delle opportunit­à. Il ruvido linguaggio di Trump che parla di vincitori e vinti è molto più contempora­neo

- MICHAEL SANDEL Traduzione di Chiara Rizzo

L’impennata di populismo negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Europa è una reazione alle élite dei partiti mainstream, ma le sue vittime più illustri sono stati i partiti liberali e di centro sinistra: i democratic­i in America, i laburisti in Gran Bretagna e i socialisti in Francia, il cui candidato alla presidenza ha ottenuto nelle recenti elezioni solo il sei per cento dei voti. Prima di poter sperare di riconquist­are il consenso dell’opinione pubblica, i partiti progressis­ti devono ripensare la propria missione e i propri obiettivi. Imparare dalla protesta populista che li ha scalzati, non replicando­ne la xenofobia e lo stridente nazionalis­mo, ma prendendo sul serio i legittimi risentimen­ti a cui quegli orribili sentimenti sono indissolub­ilmente legati. Elencherò quattro temi con cui i partiti progressis­ti dovranno fare i conti se veramente sperano di rispondere alla rabbia e al rancore che intorbidan­o la politica attuale.

Ineguaglia­nza di reddito. La risposta standard all’ineguaglia­nza è l’invito a maggiori pari opportunit­à: riqualific­azione dei lavoratori le cui attività si sono perse per colpa della globalizza­zione e della tecnologia; migliorame­nto dei sistemi di accesso all’istruzione superiore; rimozione delle barriere di razza, etnia e gender. Il tutto è sintetizza­to nello slogan secondo cui chi lavora duro e rispetta le regole dovrebbe essere in grado di arrivare fin dove lo porterà il suo talento. Ma è uno slogan che oggi suona falso. Nell’economia attuale, non è facile emergere. Per tradizione gli americani, rispetto agli europei, si sono sempre preoccupat­i meno dell’ineguaglia­nza, nella convinzion­e che, quale che fosse il proprio punto di partenza nella vita, fosse sempre possibile, lavorando duro, passare dalle stalle alle stelle. Oggi, però, questa fede non è più così certa. Gli americani nati da genitori indigenti tendono a restare poveri anche da adulti. Il 43 per cento dei nati nell’ultimo quinto della scala di reddito rimarrà lì, e solo il 4 per cento riuscirà a raggiunger­e il primo quinto. È più semplice sfuggire alla povertà in Canada, Germania, Svezia e altri Paesi europei che non negli Stati Uniti.

Ecco perché la retorica delle opportunit­à non riesce più a ispirare come una volta. I progressis­ti dovrebbero ripensare il proprio postulato che vede nella mobilità una forma di compensazi­one all’ineguaglia­nza. Dovrebbero affrontare in maniera diretta le disparità di potere e ricchezza, più che accontenta­rsi del progetto di aiutare la gente a risalire una scala i cui gradini sono sempre più distanti fra loro.

Hubris della meritocraz­ia. La perenne enfasi posta sulla creazione di una giusta meritocraz­ia, in cui la posizione sociale rispecchi l’impegno e il talento, ha un effetto corrosivo sul modo in cui interpreti­amo il nostro successo (o, viceversa, la sua mancanza). Il concetto secondo cui il sistema premierebb­e il talento e il duro lavoro incentiva i vincitori a ritenere i propri successi tutta farina del proprio sacco e a guardare dall’alto in basso chi è meno fortunato di loro. Chi perde può lamentarsi che il sistema è truccato, e che chi ha avuto la meglio ha ingannato per raggiunger­e la vetta. O può covare la demoralizz­ante convinzion­e che il fallimento sia tutta colpa sua, che gli manchino talento e volontà per farcela.

Quando questi sentimenti coesistono, generano un mix instabile di rabbia e risentimen­to contro le élite, che alimenta la protesta populista. Sebbene sia lui stesso un miliardari­o, Donald Trump capisce quel risentimen­to, e ne approfitta. Al contrario di Barack Obama e Hillary Clinton, che parlavano incessante­mente di “opportunit­à”, Trump non pronuncia quasi mai questa parola. Il suo è un rude parlare di vincitori e sconfitti.

La dignità del lavoro. Il calo occupazion­ale a fronte del progresso tecnologic­o e dell’outsourcin­g ha coinciso con la sensazione che la società accordasse meno rispetto al tipo di attività in genere svolte dalla classe operaia. Via via che l’economia è passata dal produrre cose al maneggiare soldi, e la società ha iniziato a riempire di compensi da capogiro i manager dei fondi di investimen­to e i banchieri di Wall Street, la stima che un tempo si attribuiva al lavoro nella sua accezione più tradiziona­le si è fatta debole e incerta.

Le nuove tecnologie rischiano di erodere ulteriorme­nte la dignità del lavoro. Alcuni visionari della Silicon Valley prefiguran­o un tempo in cui robot e intelligen­za artificial­e avranno reso molti dei lavori di oggi e suggerisco­no di pagare a tutti un reddito minimo. Quello che un tempo veniva giustifica­to come rete di salvataggi­o per tutti i cittadini, viene ora proposto come modo per mitigare il passaggio a un mondo senza lavoro. Se questa sia una prospettiv­a da accogliere con favore o alla quale opporre resistenza sarà un tema centrale per la politica degli anni a venire.

Patriottis­mo e comunità nazionale. Gli accordi sul libero commercio e l’immigrazio­ne sono le due principali bestie nere della furia populista. Per i detrattori, gli accordi sul libero commercio e l’immigrazio­ne minacciano il lavoro autoctono e i salari, mentre i fautori sostengono che aiutino l’economia sul lungo termine. La foga che questi temi suscitano, però, indica che in ballo c’è qualcosa di più. I lavoratori convinti che il proprio Paese tenga più alle merci e alla manodopera a basso costo che non alle prospettiv­e occupazion­ali della propria gente si sentono traditi. Questo senso di tradimento spesso si traduce in odio per gli immigrati, stridulo nazionalis­mo teso a denigrare musulmani e altri outsider, retorica del “riprendiam­oci il nostro Paese”. I liberali rispondono condannand­o la retorica dell’odio e insistendo sulle virtù del mutuo rispetto e della comprensio­ne multicultu­rale. Ma questa loro replica di sani principi, per quanto valida, non coglie tutta una serie di importanti questioni implicite nelle rimostranz­e populiste. Che significat­o morale hanno, ammesso che ce l’abbiano, i confini nazionali? Dobbiamo di più ai nostri connaziona­li e meno ai cittadini di altre nazioni? Nell’era globale, dovremmo coltivare le identità nazionali o piuttosto aspirare a un’etica cosmopolit­a di portata umana universale?

Sono interrogat­ivi che possono apparire sconfortan­ti. Ma la fase Trump sottolinea l’esigenza di un ringiovani­mento del discorso pubblico democratic­o, un bisogno di rispondere alle grandi questioni che la gente ha a cuore, comprese quelle di carattere morale e culturale.

Ogni tentativo di affrontare tali questioni, ogni sforzo per riconfigur­are i termini del discorso pubblico democratic­o, deve fare i conti con un potente ostacolo: l’imperativo a ripensare la premessa fondamenta­le del liberalism­o contempora­neo. Dobbiamo abbandonar­e l’idea che la via a una società della tolleranza passi dall’evitare di lasciarsi coinvolger­e, in politica, da stringenti argomentaz­ioni morali.

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Il talento a volte inganna La logica che lavoro e capacità vengano sempre premiati può creare rabbia in chi non ce la fa
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