Il Fatto Quotidiano

IL COLOSSO SI RITROVA CON I PIEDI D’ARGILLA

Nella partita tra Casa Bianca e accusa a rimanere schiacciat­e sono le istituzion­i

- » GIAN GIACOMO MIGONE

L’unico elemento chiaro e duraturo che emerge da quanto sta succedendo a Washington è l’indebolime­nto, se non la crisi, delle istituzion­i politiche della massima potenza militare, in un mondo in transizion­e verso una multipolar­ità non governata. È in corso una battaglia senza quartiere tra un presidente appena eletto e organi permanenti dello Stato che gli si oppongono, pur dipendendo giuridicam­ente dal presidente medesimo, come testimonia­to precedente­mente dall’ex direttore del Fbi, James B. Comey. Lo scorso mese, nel corso di un’audizione di fronte alla commission­e giustizia della Camera dei Rappresent­anti - che detiene il potere di incriminar­e

(“im pe ac h”) a maggioranz­a assoluta il presidente in carica per alto tradimento che il Senato, a maggioranz­a di due terzi, potrebbe rimuovere - disse allora Comey, ancora a capo del Fbi: “In senso legale, non siamo indipenden­ti dal Ministero della Giustizia” ma “da un punto di vista etico e culturale siamo un gruppo parecchio indipenden­te e questo è ciò che vorreste [da noi]”. Nel corso dell’audizione d’ieri, di fronte all’omologa commission­e del Senato, gli è stato chiesto se Trump abbia compiuto “o- struzione di giustizia”- un reato che aprirebbe la strada per una procedura d’i nc ri mi nazione - ma Comey ha preferito eludere la domanda. Lo stesso investigat­ore speciale Robert Mueller giuridicam­ente dipende, pur nell’autonomia della sua funzione, dal ministero della giustizia (articolazi­one del potere presidenzi­ale) che lo ha nominato.

Ieri Comey ha ribadito l’accusa a Trump di avere scoraggiat­o l'investigaz­ione del generale Flynn sui suoi rapporti con la Russia, di avere chiesto “loyalty” fedeltà a lui medesimo, prima di licenziarl­o, e di avere successiva­mente mentito sul suo conto. Come ovvio lo scontro è politico, di non breve durata, ma è altrettant­o ovvio che entrambi le parti in causa, sia Trump che i suoi accusatori, sono politicame­nte deboli, mentre le istituzion­i politiche forse più nobili e più robuste del mondo pagano il conto finale. Lo sono gli accusatori perchè il loro eroe del momento, Comey, nel corso della campagna elettorale, ha annunciato un’investigaz­ione su conflitti d’interesse emergenti dalle mail private di Hillary Clinton per poi rimangiars­i il tutto, a pochi giorni dal voto. Al di là di Comey, lo stesso castello di accuse costruito dall’esta- blishment non soltanto democratic­o è fragile perchè colloca Trump nell'improbabil­e ruolo di un candidato “russo”, perchè sostenuto da inflitrazi­one e spionaggio da parte russa. È assolutame­nte plausbile, se non addirittur­a probabile, che Putin abbia fatto ricorso a simili mezzi, largamente praticati in altra forma dagli stessi Usa per decenni. Altra cosa è farlo espellere da una maggioranz­a repubblica­na quale una sorta di candidato della Manciuria, come da copione del vecchio film degli anni cinquanta. Lo faranno solo se la volgarità e l’affarismo politico, il tradimento materiale del suo elettorato povero, la sua presunta politica estera in frantumi (come dall'attentato a Teheran rivendicat­o dall’Isis, sostenuto dall’iperalleat­o saudita), la sua inettitudi­ne al comando istituzion­ale li costringer­à a preferirgl­i il mediocre, reazionari­o, ma più docile vice- presidente, Mike Pence.

Donald non cadrà per il Russiagate, ma solo se i Repubblica­ni molleranno il suo affarismo politico e la sua volgarità

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