“Il nome della rosa” o, meglio, della risata
IN SCENAAl Carignano di Torino la prima trasposizione sul palco dell’opera di Umberto Eco
RRecensione fulminante del Nome della rosa: “Per il riso, come per il culo, ci sarà sempre un prete autoproclamato che cercherà di imporre dei limit i”. Scherzetto! Non è un commento al romanzo di Umberto Eco, ma uno dei motti di spirito di Stéphane Charbonnier, in arte Charb, vittima, con altri undici, dell’attentato terroristico a Charlie Hebdo, di cui era direttore.
UN ALTRO CELEBRE slogan di Charb, “Ridete, per Dio!”, ben si attaglia alle teorie in odor di eresie di Guglielmo da Baskerville, e ricorda che l’opera di Eco ha un’eco sorprendentemente attuale, pur rimanendo – per costruzione narrativa e ispirazione filosofica – un lavoro squisitamente novecentesco.
Trasposto per la prima volta in teatro da Stefano Massini, Il nome della rosa è in scena al Carignano di Torino fino all’11 giugno, per poi salpare in tournée nella stagione 17/18: la regia e l’ulteriore adattamento scenico sono firmati da Leo Muscato, mentre la produzione è a carico di tre “Stabili”– torinese, genovese e veneto.
Il regista ha imbastito una versione “antinaturalistica della vicenda” affinché “lo spettatore si dimentichi del film di Annaud”. L’operazione è tutto sommato riuscita, pur con qualche inciampo, in primis drammaturgico: “Abbiamo immaginato uno spettacolo in cui la dimensione del ricordo del vecchio Adso potesse diventare la struttura portante”.
Tuttavia, è proprio la scelta di mantenere la cornice metanarrativa del romanzo – in cui Adso, anziano, riper- corre le trame delittuose cui ha assistito da ragazzo in una abbazia del Nord Italia – a intralciare l’azione drammatica: l’espediente del manoscritto, insomma, funziona benissimo sulla carta, ma in palco si trasforma da astuzia in ostacolo, sia per chi recita sia per chi guarda.
Qualche difficoltà la crea anche la gestione dello spazio, “una scatola magica in continua trasformazione che evoca diversi luoghi: biblioteca, cappella, cella, cucina...”. Per creare questo effetto, sulla scenografia austera e labirintica di Margherita Palli, vengono proiettati luci colorate e video disparati di ossa, libri, fiamme, apocalissi: il risultato è un accumulo di segni, disorientante spazialmente ed esteticamente indigesto.
Le scene più forti, infatti, sono quelle in proscenio, davanti a un semplice fondale nero, o quelle orchestrate come tableau vivant, in cui bastano i cappucci dei monaci a restituire l’atmosfera ieratica e sanguinolenta dell’abazia, dove i pensionanti muoiono uno a uno, ammazzati dal demonio, per brevità chiamato uomo.
Lo spettacolo, in generale, è godibile e compatto, grazie anche all’ottimo cast, in cui spiccano Luca Lazzareschi, un Guglielmo ironico e luciferino, e lo straordinario Renato Carpentieri, alias Jorge da Burgos, la cui tetraggine è sapienza, la cui intransigenza è intelligenza.
È SUL RISOche si gioca la partita, a suon di cadaveri, tra il “guitto” Guglielmo e l’ortodosso Jorge, il dubbioso e il granitico, il relativista e il realista. Per il primo “il diavolo è cupo, è la fede senza sorriso”; per il secondo, non c’è nulla di più diabolico ed eversivo della risata, della commedia, della satira. Dice Jorge: “Se un giorno si facesse accettabile, e apparisse nobile e liberale, l’arte dell’irrisione... allora non avremmo armi per arrestare quella bestemmia!”. Suona come una fatwa lanciata dalla cristianissima Italia del 1300, ma il Medioevo – par di capire – non è ancora finito.