Caos Centri per l’impiego: pochi soldi e precariato
Paradossi Chi deve aiutare a cercare occupazione non ha certezze per il futuro. E lo Stato spende spiccioli, Germania e Francia miliardi
Ci sono precari che, di mestiere, si occupano di precariato. Impiegati senza certezze per il proprio futuro che assistono ogni giorno chi, a sua volta, affronta il dramma del licenziamento o della disoccupazione di lungo corso. Studiosi senza posto fisso impegnati nella ricerca di rimedi all'eccessiva flessibilità del mercato occupazionale.
LAVORARE nei servizi pubblici per il lavoro, insomma, non è di per sé una garanzia di stabilità e diritti. Lo sanno bene i quasi 2 mila dipendenti a tempo determinato di quelli che una volta erano chiamati uffici di collocamento. Così come i 760 che rischiano di essere cacciati a luglio dall'Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (Anpal) o ancora i 180 ricercatori a termine dell'Inapp.
Un apparente paradosso, tuttavia spiegabile nell'Italia che investe poco nei servizi di accompagnamento: qui la dotazione è di 750 milioni di euro mentre in Germania arriva a 11 miliardi. I nostri centri per l'impiego (cpi) vivono da mesi in stallo. Formalmente dipendono dalle province che, come noto, sono state disarticolate dalle ultime riforme. La competenza delle politiche del lavoro, tra l'altro, sarebbe passata dalle Regioni allo Stato con la riforma costituzionale Renzi-Boschi. La vittoria del No al referendum del 4 dicembre ha creato il caos; la ma- teria è rimasta alle Regioni che però non hanno abbastanza soldi per gestirle: “Il ministero dovrebbe assicurare almeno 400 milioni di euro all'anno”, spiega Federico Bozzanca della Funzione pubblica Cgil, che il 3 lu- glio protesterà con Cisl e Uil. Per dirla con i numeri: i dipendenti dei cpi sono 7.500 stabili più 2 mila a termine e dovrebbero seguire, con le agenzie private, 3 milioni di disoccupati. A questi bisogna fornire assistenza personalizzata: aiutarli a scrivere il curriculum e suggerire corsi di formazione. Romina Piccardi è impiegata al centro di Firenze, dove sono in 10 a ricevere 100 visite al giorno. Ha iniziato con un contratto co.co.co. nel 2004 e oggi ha un tempo determinato rinnovato ogni anno: “Basta una gravidanza – racconta – o una malattia di un collega e non riusciamo ad aprire alcuni sportelli”. In totale, nel capoluogo toscano sono 110 i dipendenti, 56 dei quali “fless ibili”. Cristian Biagini opera a Città di Castello (Perugia) e ha cominciato nel 2001: da qualche settimana ha “festeggiato” 16 anni di precariato con 40 concorsi alle spalle. “Ho anche un'esperienza in Olanda – afferma – Tengo mille colloqui all'anno ma ancora non so se il mio contratto sarà rinnovato a gennaio”.
Gli adempimenti per i centri sono tanti e sempre in aumento: il reinserimento di chi prende l'assegno di disoccupazione, l'orientamento dei ragazzi che aderiscono a Garanzia Giovani, il reddito di inclusione, l'assistenza ai soggetti deboli come disabili e stranieri. Matteo Renzi aveva promesso con il Jobs Act che, a fronte dei licenziamenti facili per l'abolizione dell'articolo 18, sarebbero stati predisposti efficienti servizi di ricollocamento. La realtà dice il contrario e tutto ciò che non viene investito nelle politiche di accompagnamento viene sprecato con i sussidi che non sarebbero necessari se chi li riceve ritrovasse un lavoro. L'altro effetto è la scarsa trasparenza nel mercato. Quando i centri pubblici funzionano poco, è più facile per le aziende abusare dei tirocini, demansionare un dipendente o pagarlo in nero. Senza una supervisione si apre la strada alle raccomandazioni, che premiano chi ha più conoscenze a scapito della meritocrazia.
A indagare su questi fenomeni e non solo ci pensa l'Inapp, istituto di ricerca sulle politiche attive. Un ente in lotta per ottenere lo status di "organo intermedio", circostanza che permetterebbe un maggiore margine di manovra sul piano finanziario e qualche prospettiva ai suoi 180 studiosi precari.
Ricollocamento
Col Jobs Act, Renzi aveva promesso servizi più efficienti. Guai anche per Anpal e Inapp